Provateci voi ad affrontare la stesura del successore di un album come
Sunbather. Album epocale, di conclamata rilevanza storica, in grado di traghettare il
black metal verso lidi inesplorati.
Va da sé che certi accoliti intransigenti, votati anima e corpo alla nera fiamma, possano non aver gradito l’imbastardimento di un genere che tende, ancor oggi, ad arroccarsi su stilemi -apparentemente- inviolabili. Chi invece, come il sottoscritto, ritiene che ogni genere sia contaminabile e ha prestato giuramento di fedeltà solo alla buona musica, non potrà che aver gradito.
Sono certo che gli stessi autori siano ben contenti delle scelte operate: la contaminazione con lo
shoegaze, lo
screamo ed il
post rock, così come la famigerata copertina (“
Ma è rosa!” avrebbe esclamato
Guybrush Threepwood… i più nerd l’avranno colta), hanno creato un buzz clamoroso attorno al combo a stelle e strisce, chiamato quest’oggi a rinverdire i fasti di un ibrido musicale affascinante come pochi, dotato di sfumature emotive senz’altro differenti da quelle dipinte dai prime movers del genere, ma non per questo meno intense.
Dunque, come se la sono cavata i
Deafheaven? Si saranno fatti schiacciare dal peso delle aspettative o avranno dimostrato di essere una band “vera”, che non vende sogni ma solide realtà (ho il cervello oberato di citazioni sceme, portate pazienza)?
Beh, il voto l’avrete già sbirciato…
Il titolo del platter, stando alle parole della band, intende rappresentare la spinta verso nuove destinazioni, per quanto brumose, ignote ed oscure possano apparire.
Ebbene, trovo la descrizione calzante sino ad un certo punto: la rotta musicale intrapresa dal quintetto di San Francisco li ha sì condotti verso nuovi approdi, ma non attendetevi nulla che possa anche lontanamente venir qualificato come stravolgimento di sound. Una cosa, quantomeno, è certa: chi, come il sottoscritto, pronosticava un ammorbidimento nelle coordinate stilistiche, ha commesso un marchiano errore di valutazione.
New Bermuda, sotto questo profilo, mi ha sorpreso, e in positivo.
Mette in bella mostra numerose partiture di
black metal nudo e crudo, dosi massicce di taglienti riff dal chiaro sapore thrasheggiante (in parte già apprezzate nel singolo del 2014
From the Kettle onto the Coil), largo uso di blast beat e di doppio pedale, uno screaming ancor più acido e acre del solito di
George Clark.
Ciò è in particolar modo evidente nell’indemoniata
Luna, autentica scheggia impazzita che si riposa intorno al giro di boa, giusto 90 secondi, per poi ricordarci quanto fenomenali fossero gli
Alcest dei tempi andati. Forse il brano migliore del lotto.
Proprio questa mutevolezza di partiture e mood all’interno dei singoli pezzi costituisce, a mio avviso, la qualità più fulgida dei
Deafheaven. Il nuovo platter spinge la tendenza alle estreme conseguenze: trovo quasi spaventosa la maestria nel legare fasi sulla carta incompatibili, alternando di continuo feeling in un saliscendi ora frenetico, ora contemplativo, ora triste, ora furioso, senza (quasi) mai forzare.
Emblematica, in questo senso, l’opener
Brought to the Water, ottovolante sonoro capace di appagare tanto i seguaci dell’
emo (se ancora ne esistono) quanto gli amanti del
depressive.
La perfezione, si sa, non è di questo mondo, e ogni tanto la formula s’inceppa.
Detto da un fan sfegatato dei
Maiden suona strano, me ne rendo conto, ma corre comunque l’obbligo di informare che l’incipit di
Baby Blue -molto simile a quello di
Faux Semblants degli
Amesoeurs- si attarda un po’ troppo.
Parliamo, più in generale, del pezzo più debole fra i cinque presenti in tracklist: personalmente continuo a ritenere che gli assoli di chitarra, per quanto apprezzabili, mal si sposino con la proposta dei Nostri; oltre a ciò, la sezione in mid tempo manca di dinamismo e originalità.
Canovaccio simile, ma maggior resa (meravigliosa la porzione finale), per la successiva
Come Back, ottimo brano che ci prepara nel modo migliore a
Gifts of the Earth. Magari non arriverà a toccare gli -irraggiungibili?- livelli di coinvolgimento di
The Pecan Tree… ma che canzone, ragazzuoli miei: sognante, evocativa, epica, in una parola magistrale.
Mentre scorrono gli ideali titoli di coda, ci rendiamo conto di quale immenso lavoro abbiano svolto i musicisti in generale e la sezione ritmica in particolare. I miei più sinceri complimenti.
Crepi l’avarizia: già che ci siamo snoccioliamo altre felicitazioni.
Al chitarrista
Kerry McCoy, che si conferma songwriter di altissimo profilo; al fidato producer
Jack Shirley, che regala alle composizioni suoni di straordinario nitore e un mixing impeccabile; ad
Allison Schulnik, giovane artista americana che confeziona uno degli artwork più affascinanti del 2015.
La valutazione finale, per quel che mi riguarda, è oltremodo semplice:
New Bermuda non possiede la terremotante carica innovativa di
Sunbather, né le caratteristiche per surclassarlo nell’immaginario collettivo.
Al tempo stesso, contiene tutto quello che ogni fan dei
Deafheaven poteva lecitamente attendersi, si candida con prepotenza per un posto nella mia personale top ten di fine anno e, ciò che più conta, conferma l’integrità artistica e il talento smisurato della compagine statunitense.
Se a voi sembra poco…