E’ giunto il momento delle scuse. Una cosa che probabilmente avrei dovuto (e potuto, grazie alla
webzine più
gloriosa della
Rete …) fare prima, ma che non si può rimandare oltre.
Non consideravo
Joel Hoekstra un musicista degno di grande considerazione.
Avevo inizialmente mal digerito il suo ingresso nei Night Ranger (nel ruolo che fu del leggendario
Jeff Watson!) e nonostante le prestazioni di ottimo livello con uno dei miei tanti eroi del
rock melodico, ero stato evidentemente abbagliato dalla prova
monstre dei suoi compagni d’avventura, da troppi anni stabilmente residenti nel cuore di questo
maturo musicofilo.
D’ora in avanti, anche grazie a “
Dying to live”, il nome di
Joel dovrà essere legittimamente inserito nell’elenco destinato agli artisti di notevole valore, capaci di distinguersi in un mondo pieno di (competenti) comprimari.
Qualcuno potrà osservare che al nostro piace “vincere facile” e che non è un’impresa “impossibile” conquistare un ampio consenso quando i suoi
Joel Hoekstra's 13 si avvalgono dei servigi di gente del calibro di
Jeff Scott Soto,
Russell Allen,
Vinny Appice e
Tony Franklin (senza dimenticare gli ospiti
Derek Sherinian,
Chloe Lowery e
Toby Hitchcock!), i cui
curricula sono talmente rinomati da non richiedere ulteriori didascalie.
E invece la mia impressione è che proprio in questa situazione, nella quale si poteva finire per essere “schiacciati” da personalità così straripanti, sia da sottolineare la capacità del chitarrista americano nel far emergere tutte le sue qualità tecnico - compositive, esibite in una costante osmosi tra perizia e ispirazione.
Valutazioni indirizzate a chi ama la storia dell’
hard rock e non cerca una particolare “imprevedibilità” in una produzione discografica, dacché è evidente fin dal primo contatto che sono Whitesnake, Rainbow e Dio i principali riferimenti di una raccolta musicale comunque mai fastidiosamente devota o eccessivamente oleografica.
Ovviamente avere in squadra due voci come quelle di
Soto e
Allen contribuisce non poco al risultato finale, allo stesso modo in cui i tamburi di
Appice e il basso di
Franklin consentono di concentrarsi sul resto del processo artistico senza preoccupazioni di tipo “ritmico”.
E allora, cari
hard-rockers “classici” all’ascolto, sotto con la grinta e l’enfasi di “
Say goodbye to the sun” e non “spaventatevi” della sua irruenza (vagamente “attualizzata”) e della sua linea melodica non esattamente catalizzante, nella successiva “
Anymore”
Allen addolcisce leggermente i suoi pregiati registri vocali e asseconda un brano dai toni certamente più accattivanti.
I
fans di
Soto lo ritroveranno in ottima forma nella smagliante “
Until I left you”, un gioiellino alla Takara / Talisman di notevole suggestione, mentre, dopo l’avvicendamento al microfono, “
Long for the days” lusinga irrimediabilmente i sensi con il suo
mood notturno e
serpentesco.
“
Scream” mesce con gusto Rainbow e Purple (con tanto di
flash di
Hammond!), “Never say never” scandaglia contagiosi territori elettroacustici, “
Changes” s’insinua nelle emozionanti pieghe dell’
AOR con grazia innata e “
The only way to go” pulsa di quella materia tanto cara a un mito vero, mai troppo compianto, di nome
Ronnie James.
Tanto per rimanere in “tema”, il
rush finale dell’opera lo inaugura una drammatica e Sabbath-
iana title-track e se “
Start again” solca nuovamente acque pacifiche e vaporose in un clima dai contorni quasi
prog (bello il
break di
synth), tocca a “
What we believe” piazzare il colpo “definitivo”: uno splendido duetto tra
Jeff e
Chloe Lowery (Trans-Siberian Orchestra), in un autentico generatore sonico di brividi di soddisfazione, tra Led Zeppelin e prime Heart.
Allora, vediamo un po’ … ammenda fatta e albo consigliato …
Sir. Coverdale (che ha fortemente voluto
Hoekstra alla sua “corte” …) ha visto bene anche stavolta.