I
Beaten to Death suonano grindcore, ma non provengono dalla terra di Albione, bensì dalle lande che hanno decretato la nascita del black metal. Infatti questo quintetto di scalmanati proviene da Oslo e sono giunti alle stampe del loro terzo album curiosamente e sarcasticamente intitolato
“Unplugged”. La band nasce all’inizio come un side project di musicisti provenienti da vari gruppi, ma con il tempo diviene una vera e propria band.
A distanza di 28 anni dal mitico
“Scum” dei
Napalm Death cosa può proporre ancora di nuovo la musica grind che non sia già stato inventato in passato? È lecito porsi questa domanda? L’ascoltatore che predilige solo questo tipo di musica potrebbe trovare superflui tutti questi quesiti, però chi ascolta anche altro può sopportare l’ascolto di album che si ripetono all’infinito? La risposta a questa domanda, risponde automaticamente anche alle altre due. Affinché questo ascoltatore continui ad ascoltare questo genere musicale bisogna che la proposta musicale introduca qualcosa di nuovo. La strada di suonare sempre più veloce e battere il record precedente è stata molte volte percorsa e generalmente ha portato buoni frutti, ma ora dopo tanti anni e tanti dischi cosa si può offrire all’ascoltatore? Una possibile risposta a questa domanda ce la porgono i
Beaten to Death con questo disco. Infatti i pezzi di
“Unplugged” contengono oltre al solito grindcore delle aperture melodiche e addirittura, se è lecito chiamarle così, delle piccole parti oserei dire progressive.
I brani si diversificano molto tra loro e l’originalità di molti pezzi è sicuramente il valore aggiunto di questo album che, secondo il sottoscritto, lo designa come una delle migliori uscite del settore grindcore degli ultimi anni, se non altro per la sua ventata di novità.
I brani sono 13 e tutti di durata inferiore ai due minuti per complessivi 21 minuti di musica e anche questo contribuisce a rendere il tutto più fruibile e meno ripetitivo. La voce di
Anders alterna scream molto acute a parti di growl in toni molto bassi ed è anch’essa uno dei punti vincenti del disco. A differenza della maggior parte dei gruppi grind, le chitarre sono poco distorte e il basso è molto spesso udibile distintamente, la qual cosa rende il suono meno frastornato e confusionario ed è più facile apprezzare anche il lavoro alla batteria oltre a distinguere meglio le vocals. Chitarra e basso sono inoltre spesso suonate su toni alti e fondono i loro suoni scandendo i tempi di batteria o facendo da contrappunto.
Dopo tutto ciò che ho scritto non pensiate che questo disco sia blando o soft, tutt’altro! Questa musica è grind a tutti gli effetti e spacca non meno di altri dischi grind. Solo che le idee che sono contenute in
“Unplugged” sono fresche e atipiche e sorprendentemente si adattano perfettamente alla proposta musicale.
Dai titoli delle tracce si evince anche un’attitudine scherzosa e autoironica del gruppo come in:
“Don't You Dare To Call Us Heavy Metal”,
“Papyrus Containing The Spell To Summon The Breath Of Life Enshrined In The Collected Scrolls Of Sheryl Crow”,
“Menstrubation” o
“Death to False Grindcore”. C’è anche un non tanto celato tributo ai
Napalm Death nel brano
“Greenway/Harris” e un misterioso brano intitolato
“Robert Sylvester Kelly”.
Una caratteristica di questa band è quella di produrre i dischi in studio registrando tutti gli strumenti contemporaneamente in maniera live, senza manipolare successivamente ciò che è stato registrato.
Se vogliamo indicare una band che suona una musica affine ai
Beaten to Death non è semplice, forse qualche somiglianza può essere riscontrata con due band statunitensi del New Jersey: i
Discordance Axis e i
Gridlink, ma i
Beaten to Death sono molto più originali nelle loro composizioni e il riferimento di similitudine si riferisce solo alla tipologia delle vocals, del suono grind di base e alla durata delle composizioni. Un termine di paragone, però solo nell’attitudine alla composizione e strutturazione schizofrenica dei pezzi, nonché anche al modo di cantarli, potrebbe essere
“Torture Garden” dei
Naked City di
John Zorn, anche se a livello musicale i dischi non si somigliano granché, perché nei brani dei
Naked City è presente quella vena jazz proveniente dal suono del sassofono di
John Zorn che permea tutto il disco.
Chiudo la recensione con un mio azzardo e una domanda a voi lettori, secondo voi se al grande
Dimebag Darrell e ai
Pantera avessero chiesto di ideare e suonare un pezzo grind, sarebbe uscito fuori qualcosa di simile a
“Til himmels (for å gjete gud)”?
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