Siamo talmente abituati a considerare
Alessandro Del Vecchio un produttore e compositore di primo piano da quasi dimenticarci delle sue doti non comuni anche come esecutore.
Un aspetto che evidentemente il chitarrista
Aldo Turini aveva invece ben presente, tanto da affidargli, oltre ad alcuni “oneri“ in fase di scrittura, le parti vocali di questo suo ambizioso progetto artistico, denominato
Eleventh Hour e realizzato con il fattivo apporto di
Luca Mazzucconi (NFD, Lahannya),
GianMaria "Black Jin" Godani,
Alberto Sonzogni (The Black Phoenix, Timesword) e
Giuseppe Carella, responsabile della stesura di tutte le sfarzose partiture orchestrali che sostengono l’opera.
“
Memory of a lifetime journey” è, infatti, un lavoro di
power-prog sinfonico dalle caratteristiche piuttosto “cinematografiche”, in un calderone ispirativo che va dai Fates Warning agli Stratovarius, passando per Vanden Plas, Rhapsody e Ayreon.
Stabiliti (a grandi linee) i confini stilistici, proseguiamo dicendo che anche lontano dalla sua rinomata
comfort zone (
AOR e
hard-rock blues, per gli inguaribili “distratti”)
Del Vecchio ostenta con prontezza le cospicue qualità espressive di cui è in possesso e che pure nel resto della
band è difficile fin dal primo ascolto individuare eventuali pecche tecnico-interpretative, mentre per quanto riguarda il profilo musicale la questione è leggermente più complessa.
Sarà necessario, verosimilmente, approfondire un po’ meglio i cinquantatré minuti del programma per entrare “davvero” in sintonia con strutture sonore, come anticipato, parecchio enfatiche e mutevoli e tuttavia non per questo eccessivamente ridondanti.
Il disco conquista soprattutto grazie ad un approccio melodico dal notevole impatto emotivo, in grado di rendere particolarmente affascinanti le vaporose atmosfere
Hollywoodiane di “
Here alone” e “
Sleeping in my dreams” nonché le passionali armonie di “
Back to you” (con addirittura un pizzico di PFM nell’impasto ...), ma anche capace di fare la differenza quando i brani diventano più veloci e possenti, riuscendo così a evitare i pericoli di un genere ormai traboccante di
cliché. Ed ecco che le cangianti "
All I left behind” e “
Island in the sun” e le pompose frenesie neoclassiche di “
Jerusalem”, “
Requiem from a prison” e “
After all we've been missing” adescano i sensi attraverso un rilevante
grip “empatico”, fondamentale per distinguersi dai molti “polpettoni” tipici del settore.
Un esordio interessante, dunque, per un gruppo che può evolversi ulteriormente fornendo alla “causa” un contributo importante.
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