E’ risaputo che in tempi di profonda crisi sia abbastanza frequente rivolgersi a
Dio … niente paura, la
webzine più
gloriosa della
Rete non è stata improvvisamente folgorata da una vocazione mistica, ma tramite questo innocuo
calembour è mia intenzione rilevare ancora una volta quanto sia radicata la nostalgia per i “classici” in un
rockrama a corto di nuovi stimoli espressivi. Dopo la recente “voglia” di Scorpions (oltre alle iniziative per i cinquant’anni di carriera dei titolari, il “ritorno di fiamma” a firma
Uli John Roth …), è ora il turno del mai troppo compianto
Ronnie James, omaggiato quasi in contemporanea da Resurrection Kings e da questi
Last In Line, formazioni pienamente titolate (con il grande
Vinny Appice nel ruolo di nobile
trait d’union) ad accollarsi con autorità l’onerosa incombenza. Nello specifico, la presenza del chitarrista (ottima, per la cronaca, la prestazione di
Vivian Campbell) e della sezione ritmica (e qui è necessario un sentito
R.I.P. indirizzato al veterano
Jimmy Bain, purtroppo anch’egli da poco scomparso) che contribuirono al successo di “
Holy diver", "
The last in line" e "
Sacred heart" rende questo “
Heavy crown” una plausibile “continuazione” di quel percorso, e pone un immediato
focus sul vocalist
Andrew Freeman (Lynch Mob, The Offspring, Hurricane), chiamato a un compito apparentemente proibitivo.
Ebbene, superando gli inevitabili dubbi e nonostante i doverosi distinguo, possiamo dire che l’albo offre una credibile versione “aggiornata” di quei suoni e riesce a non apparire eccessivamente “devoto” anche grazie alle qualità di un cantante che non cade nel tranello di scimmiottare una delle icone assolute della fonazione modulata. Con la sua laringe potente e versatile,
Freeman dimostra di non preoccuparsi “troppo” del confronto e di sapersi inserire piuttosto bene in un quadro sonoro rigoroso e tuttavia non fastidiosamente emulatorio.
In questo modo, se “
Devil in me” apre le ostilità evocando una sensazione di
déjà entendu (complice anche il caratteristico
drumming di
Appice) tanto vivida quanto gradevole, la successiva “
Starmaker” con il suo
groove poderoso potrebbe attrarre anche le generazioni meno affezionate alle leggende del
rock.
“
Burn this house down”, con un pizzico di fantasia, materializza nella memoria un’improbabile
jam tra Bush e gli stessi Dio, "
Blame it on me” mescola
Sabs e scorie di AIC e pure “
Curse the day” e la
title-track potrebbero trovare un posticino nelle programmazioni radiofoniche destinate a un pubblico non specificamente
âgée.
In una raccolta priva di autentiche controindicazioni, mi preme infine segnalare la degna conclusione di un’opera di valore: “
The sickness” è un altro efficace
showcase delle peculiarità dei
Last In Line, una
band che guarda alla sua blasonata storia senza facili autocompiacimenti … e non è poco.