Per i latini
aurea mediocritas aveva una connotazione positiva. Significava infatti stare in una posizione intermedia tra l’ottimo e il pessimo, tra il massimo e il minimo, ed esaltava il rifiuto di ogni eccesso, invitando a rispettare il “giusto mezzo”. Nella contemporaneità la mediocrità è invece diventata il peccato più grande (Martha Graham), simbolo di ignoranza, meschinità, impossibilità di pensare e sentire, vuoto che invade ogni sfera della vita sociale (cit.)….e anche musicale si potrebbe aggiungere.
Eccoci allora a valutare l’ottavo album di questa banda tedesca che, nonostante non abbia mai ne prodotto un lavoro indegno ne deluso particolarmente, ha l’innegabile e funesta sorte di non aver trovato quel successo riservato ad altri gruppi ispirati egualmente al suono dei Maiden.
Eppure, in questo caso la mediocrità dovrebbe essere intesa in senso positivo in quanto per l’ennesima volta i tedeschi dimostrano di poter rimanere fedeli al loro sound, aggiungendo aspetti sinfonici, maggiormente melodici ed anche velatamente progressive, ma senza disconoscere e perdere la solidità ed il tiro nei loro pezzi.
Questo aspetto si evidenzia sin dall’inizio dell’album con “
Dykemaster’s Tale”, veloce pezzo, un po’ lunghetto ma che da subito l’imprinting per l’intera opera.
La successiva “
Somerled” ha dei leggeri richiami epici coniugati ad altri prettamente power, con un rallentamento a suono di cornamusa e riattacco ben riuscito.
“
Signs” invece risulta incentrata molto sulla voce e sulla melodia. Il supporto strumentale è basico, con riff ripetuti e sostenuti da un ritmo costante, cambi di accordi semplici e minimi. Riuscita nell’insieme, nonostante i momenti in qui risulta più statica in particolare durante l’assolo di chitarra, solo a tratti magari troppo simile a “Gutter Ballet” dei Savatage.
“
On The Edge” invece è sicuramente uno dei picchi dell’album. Il pezzo scorre bene e, nonostante la struttura si ripeta molto, il refrain è trascinante, di facile ascolto e ciò lo rende piacevole e, soprattutto, la familiarità del giro di chitarra non può non richiamare alla mente i migliori tempi che questo genere ha conosciuto.
Dopo l’intermedio di “
In My Kingdom Come”, dove vengono fatti risaltare ancora una volta elementi di power misti all’epic più classico, con “
The Healer” finalmente si ha uno scossone che riporta l’album verso sonorità più veloci e tirate, cosa che prosegue con “
Dust Of Vengeance”, vera cavalcata dell’album.
Nella suite finale “
A Tale From Beyond”, e quindi nelle tre parti che la compongono, i teutoni concentrano tutto l’animo power che hanno, ma l’intento riesce a metà in quanto se l’inizio ed il finale mantengono inalterato il livello, la parte intermedia risulta essere troppo piatta ed invece di dare un cambio di ritmo non fa che rallentare il pezzo rendendolo pesante e a tratti noioso.
A parte quest’ultima caduta, l’album risulta essere un altro tassello che, seppur non apporti nulla di quanto già espresso dal gruppo, mostra comunque un leggero movimento in direzione di sonorità più variegate. Inutile quindi aspettarsi il miracolo, ma c’è l’invito semplicemente ad ascoltare con piacere un esempio di come sia vero quanto diceva Goethe:
Nessuna meraviglia che ci compiacciamo più o meno tutti della mediocrità, giacché essa ci lascia in pace; dà la piacevole sensazione come di avere a che fare coi propri simili.
A cura di Pasinato Giovanni
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