All'epoca del debutto "Magnetizer" (Boundless, 1998) i Sunride furono incorporati, abbastanza coerentemente, nella corrente più heavy e muscolare del movimento stoner, con buone aspettative sui progressi futuri. I lavori successivi hanno invece visto la formazione finlandese rinunciare in maniera sempre più esplicita alle vibrazioni "stonerizzate", per imporre un heavy rock aspro, lineare, poderoso, fortemente metallizzato ed alquanto curato sotto l'aspetto melodico.
Questo ultimo capitolo discografico segna il punto di arrivo dell'evoluzione del gruppo, un sound potente ed asciutto, perfettamente nitido, ripulito da qualsiasi increspatura grezza o ipotesi improvvisativa, una direzione fragorosa ed energica ma sempre attenta a non superare i limiti di una facile accessibilità. Tutte le canzoni sono ottimamente strutturate e bilanciate, i ritmi quadrati e perfino un po'asettici nella loro precisione meccanica, la voce è chiara ed emozionale con un velo di malinconia, la ricerca melodica è stata esaltata al massimo cercando di ricreare quelle atmosfere lievemente ombrose ed introverse che incontriamo sovente nelle recenti proposte del rock Americano per il grande pubblico.
Malgrado tutto sembri esteticamente perfetto, il limite dei Sunride è proprio quello di non aver indovinato ganci melodici realmente originali, qualcosa che potesse restare memorizzato superando la strisciante sensazione di ordinata freddezza che emerge dall'album. Invece i brani si incolonnano sulle medesime coordinate, per un ascolto solido ma avaro di picchi eccitanti. Gli episodi più incisivi sono l'iniziale "Otherside" che ha una buona vibrazione drammatica, l'intensa ed orecchiabile title-track dal taglio radiofonico, l'appassionata "Ocean" a metà strada tra il post-grunge ed i QotSA e la particolare "One tragedy", la quale esula un po'dal contesto grazie alla presenza dell'armonica di Michael Monroe (Hanoi Rocks) che garantisce un piccante tocco di ruvidità bluesy quanto mai gradito.
Il resto non si allontana dai valori medi e consolidati delle produzioni rock contemporanee, interessate a raggiungere un pubblico sempre più allargato e meno settoriale senza rinunciare ad uno spesso rivestimento metallico.
Abbiamo dunque l'ennesimo esempio di album sostanzialmente ineccepibile per produzione, esecuzione, scorrevolezza, al quale manca però quel tocco di fantasia, una vena di follia, l'incanto magico che distingue i grandi dischi magari anche imperfetti dai burocratici lavori privi di smagliature e conformi alle regole.
I Sunride alla fine si confermano un buon gruppo di settore, andando a rinforzare la schiera dei praticanti sospesi tra rock, heavy metal ed ambizioni commerciali.
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