I Mistress credono nel disgusto, nel fascino dell’orrido, nelle cose fetide e repellenti che solo pochi temerari osano affrontare. Forse è questa la filosofia che guida la loro musica, un concentrato di eccessi vomitato con la brutalità caratteristica del metallo estremo.
Una band di picchiatori imbufaliti, un album che somiglia ad una folle discesa sull’ottovolante, un saliscendi ritmico tra convulsioni grind, violenza hardcore, rantoli catarrosi e marciume sludge. Esiste comunque una logica in questo caos, i britannici hanno appreso da gente come Napalm Death, Brutal Truth, Soilent Green, l’arte di confezionare brani facendo coesistere martellamenti spezzacollo con improvvise frenate catramose. Quindi un suono rozzo, primitivo, disturbante, provocatorio, ma più articolato di quanto possa sembrare al primo ascolto.
Talvolta nel gruppo prevale l’animo rissaiolo e manesco, da cui derivano brani come la title-track o “Static” che profumano più di sbronze del sabato sera che di schizzamenti ultra-metal. Ma la furia isterica arriva come un maglio nei passaggi crust di “Happily ever disaster”, “Fucking fuck”, “Alcohole”, che faranno la gioia degli estremisti dallo stomaco forte.
Ultimamente sono cresciuti i segnali di un imbarbarimento dell’heavy metal, si torna a pestare ed a rimestare nel fango uscendo da quei salotti buoni nei quali si è a lungo cercato di infilare questa musica. I Mistress fanno di tutto per dimostrare che il metal è sporco, cattivo ed incazzato, riuscendoci in pieno, anche se a mio avviso resteranno una band di nicchia per i limiti legati alla crudezza della proposta.
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