Un altro anno perduto. Non so a volte da dove vengano le idee alle band per scegliere l’elemento che più di ogni altra cosa definirà la loro essenza insieme ovviamente alla musica. Pensate se i
Metallica si fossero chiamati gli Spongebob. Ok, magari ora avrebbe anche senso, ma ai loro tempi si sarebbero soltanto presi tante risate in faccia.
Il monicker di questi ragazzi della Carolina del Nord mi piace, suona bene ed è adatto allo stile leggermente malinconico del loro nuovissimo album
“Alien Architect”, degno successore di un lontano full e due EP autoprodotti che, almeno qui da noi, non hanno conferito grossa fama agli
Another Lost Year, o
ALY come piace a loro e come li chiameremo noi d’ora in avanti. Come era probabile, però, nel loro paese d’origine non sono del tutto ignoti e, anzi, hanno ottenuto anche vari passaggi radiofonici su MTV e nella partita d’apertura dell’NFL… altro che
“Notti Magiche” di Italia ‘90.
Le danze, o il comizio visto la particolare scelta dell’intro, iniziano con una parte del discorso del protagonista della serie tv
“The Newsroom” in cui spiega il perché gli USA non sono più una grande nazione, mentre in sottofondo si ascoltano vari rumori e una melodia che sale lentamente. Abbiamo già capito che non si disdegnano tematiche impegnate, come è un po’ da trademark dell’intero genere.
Gli
ALY sono fautori di modern hard rock di evidentissimo stampo statunitense, con vari richiami sparsi qua e là ai nomi più famosi come
Shinedown,
Stone Sour,
Black Stone Cherry e in misura minore
Alter Bridge. I riffoni rocciosi ci sono soprattutto nella prima parte del disco, con l’opener
“Wolves” e la successiva
“Bastard Sons” a serrare i ritmi e lasciare poco spazio alla sperimentazione e all’innovazione.
Fortunamente i nostri non restano attaccati ai cliché del genere per tutta la durata dell’album e già con
“Trigger Finger” e il trittico successivo variano un po’ il registro andando a ricercare maggiormente il lato melodico a scapito della potenza.
“He Took Beautiful Away” (la mia preferita) e
“Memories” mostrano il lato più tranquillo della band, con la prima che ha un mood decisamente orientato alla radio, mentre la seconda è la classica ballad molto ben confezionata ma che poco aggiunge al minestrone.
Le restanti canzoni riprendono quanto sentito nella parte centrale e pur non essendo capolavori, permettono al disco di mantenersi su buoni livelli e non soffrire della presenza degli odiosi filler.
Niente di particolarmente innovativo, ma i ragazzi sanno il fatto loro e possono tranquillamente far sentire la loro voce nell’affollatissimo mare in cui navigano.
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