36 anni! Detto così sembra niente. Pensateci bene, con calma. Il muro di Berlino è caduto e con lui un intero blocco geo/politico, ci sono state la guerra in Jugoslavia, in Iraq e in altri mille posti, l’attentato alle torri gemelle, il millennium bug, l’Italia ha vinto ben due campionati del mondo. Ed è proprio in Italia che in tutto questo arco di tempo i
Rain ci sono sempre stati, imperterriti e appassionati, cangianti e metallici. Vero che ormai della formazione iniziale è rimasto soltanto il chitarrista e fondatore
Alessio “Amos” Amorati, ma in tanti anni qualche cambiamento ci può stare e finché c’è qualcuno che porta avanti la baracca va sempre bene, se poi questo qualcuno è quello che più ha a cuore la propria creatura ancora meglio.
La prima vera novità del neonato
“Spacepirates” è rappresentata indubbiamente dalla voce di
Mantis Le Sin che sostituisce lo storico
Francesco Grandi e che di certo ha avuto un peso nell’indirizzo musicale dell’ultima release in casa
Rain. L’intero album è, infatti, molto più moderno e diretto nei suoni e, in tutta onestà, anche meno vario rispetto ai precedenti in cui eravamo abituati a strutture leggermente più ricercate che volteggiavano con grazia e si dimenavano con disinvoltura tra roccioso heavy e puro hard rock melodico.
Qui ci si trova di fronte a 9 brani racchiusi in soli 33 minuti in cui i
Rain puntano tutto sull’immediatezza lasciando da parte ogni altra pretesa. E’ questo un male? Direi proprio di no. Già a partire da quella che è la title track si intuisce quale potrà essere il percorso di
“Spacepirates”, una song che picchia forte con le sue ritmiche decise e le linee vocali trascinanti, con il suo ritornello martellante e i suoni belli pieni e corposi.
Le successive
“Dead Not Yet” e
“Hellfire” sono un mix totale tra quello che era l’hard’n’heavy degli anni 80 e 90 e quello che è ora.
Motorhead, Guns, AC/DC e chiunque vi venga in mente di quei tempi, sono perfettamente miscelati con sonorità più vicine a un modern hard rock americano, il tutto in salsa
Rain ovviamente.
“Black Ford Rising” e
“We Don’t Call The Cops” sono divertenti e scanzonate, mentre in
“86” rivive il grande
Lemmy in tutto il suo splendore.
“Billion Dollar Song” è una bella power ballad sapientemente piazzata a metà disco che rallenta con classe e ci lascia un po’ di respiro con intrecci melodici più cari ai vecchi
Rain. Ottimo colpo e sicuramente una di quelle che restano di più in testa.
L’ultima
“Kite’n’Roll” è l’anthem hard rock per eccellenza, in cui si fanno sentire le influenze dei fratelli
Young che con i loro riff hanno letteralmente incantato intere generazioni di musicisti e ascoltatori.
Non sarà il disco dell’anno, non riempiranno palazzetti o stadi, non inventeranno niente di nuovo, ma se cercate mezz’ora di buona musica, genuina, suonata con passione ed esperienza non ne resterete delusi. E dopo quasi 40 anni scusate se è poco.
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