Avevo in mente ben altre introduzioni per questa recensione, invece devo iniziarla nel peggiore dei modi possibile. Pochi giorni dopo la pubblicazione dell’album è improvvisamente deceduto James Anders, bassista, songwriter ed anima dei Novadriver. La più grande delle tragedie per la sua famiglia, per la band e per la scena stoner statunitense, dove Anders era apprezzato e stimato da tutti. James era nato nel 1964 e lascia la moglie Roberta ed il figlio Avery, motivo per il quale è stata anche organizzata una raccolta di fondi a sostegno dei congiunti del musicista. Per informazioni in merito tutti i dati necessari si trovano sul sito www.novadriver.com.
Che i Novadriver non fossero nati sotto una buona stella lo si era comunque già intuito. Dopo il buon successo dell’esordio “Void” nel lontano 2001, parevano destinati ad un’ottima carriera nell’underground heavy rock, lanciati nelle posizioni di vertice. Invece tutto è andato storto. Una line-up costantemente traballante, problemi di ego tra i musicisti, abbandoni e rientri, un sacco di opportunità sprecate, hanno fatto trascorrere il tempo senza che arrivassero più segnali positivi dalla formazione del Michigan.
La loro etichetta Small Stone non si è persa d’animo avendo completa fiducia nel potenziale del gruppo, oltre che rapporti diretti essendo tutti residenti nell’area di Detroit, ed ha offerto loro l’ennesima nuova occasione che stavolta non si sono fatti sfuggire.
Reintegrato l’ottimo cantante Mark Miers, i Novadriver hanno realizzato un lavoro corposo, sofferto, bello, usando tonalità più scure rispetto al precedente episodio presumibilmente legate alle frustrazioni accumulate nel tempo, ma ottenendo un risultato certamente superiore sotto tutti gli aspetti.
Un disco come ponte tra presente e passato, gli Hawkwind insieme ai Nebula, gli Mc5 che incontrano i vecchi Monster Magnet, heavy rock/stoner di classe pervaso da uno splendido feeling acido e “space” con le chitarre che spiraleggiano tumultuose e languide, vedi la commovente e tenebrosa “Dark aftermath” un vero hit di stoner lisergico, il liquido psych-rock “Stars after stars” ed ancora la super-jam cosmica “Blackout”, brano spettacolare sia per l’intensa atmosfera visionaria che per il dinamismo degli intricati passaggi strumentali.
L’altro volto dei Novadriver è invece quello roccioso e diretto, vibrante di una verve energica che li avvicina al rombante arena-rock dei ’70, per esempio la potente e groovy “Machine” dal ritornello esaltante, l’ombrosa ma orecchiabile “You want yours, you want mine” dal taglio Magnetiano e con Miers sugli scudi, oppure episodi solidi e battenti come la title-track, “Bury me alive” o “Push the river”, dove il gruppo agisce per vie dirette alla maniera di formazioni come i The Quill aggiungendo un sapiente tocco pop-vintage che richiama forse i primi Aerosmith.
I Novadriver non esplorano territori particolarmente nuovi, giocando però la carta di un songwriting superiore alla media. Canzoni mai banali o messe giù frettolosamente, ogni traccia è curata, sviluppata, approfondita e lascia un singolo segno del suo passaggio, dall’inizio fino all’onirica conclusione di “Whiteout”. Un disco ispirato, frutto di una ritrovata coesione della band che si pone al livello di gente come On Trial, We, Lord Sterling, nella cerchia dei migliori rappresentanti del rock/stoner psichedelico.
Come detto c’è un sottile retrogusto amaro ed aspro nel loro sound, un velo che ora assume un significato quasi profetico alla luce di ciò che è accaduto. Sarebbe stato un pregio aggiuntivo da evidenziare in questo notevole lavoro, invece ora c’è il rischio concreto che possa trasformarsi nel canto del cigno di questa formazione tanto brava quanto sfortunata.
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