Romani, denominazione collettiva enigmatica e ingegnosa, un album all’attivo (“
In hoc signo” di cui si parla un gran bene e che mi affretterò a recuperare quanto prima …) e una fenomenale capacità di trasformare le note in pura poesia, ora inquieta, ora sognante, forti di un’ispirazione aperta e visionaria, collocata in una sorta di “terra di mezzo” tra
rock e avanguardia.
Questi i tratti salienti della “carta d’identità” degli
Ingranaggi della Valle, gruppo davvero straordinario per come condensa in un unico disco, questo bellissimo e sorprendente “
Warm spaced blue”, un monumentale spiegamento d’idee e strumenti, fondendo magnificamente influenze “classiche” e “moderne” (dai Soft Machine agli Änglagård, dai King Crimson agli Opeth, dai Perigeo agli Anekdoten) e intridendole di una spiccata personalità.
Ispirato principalmente al terrificante universo evocato nell’opera letteraria di
Howard Phillips Lovecraft (qui analizzato sotto un profilo squisitamente psicologico e sociologico), il programma si dipana attraverso intriganti evoluzioni strumentali, intricate eppure fluide e mai ridondanti, capaci di offrirsi all’astante come un equilibrato affresco sonoro, ricco di colori e di suggestioni e privo di aride sperimentazioni autoindulgenti.
I gorghi dei tre movimenti della
suite dedicati alle storie del
Ciclo di Cthulhu (“
Orison”, tra atmosfere Goblin-
sche – avvallate dalla presenza dello s
pecial guest Fabio Pignatelli – e pennellate di ELP, Area e Atomic Rooster; “
Through the stars”, frammento elettronico gravido di funesti presagi e “
Promise”, un crogiolo ribollente di
world-music,
prog e “rumorismi” … una “roba” che piacerebbe tanto a
Robert Wyatt e
Robert Fripp quanto a
Trent Reznor), lasciano spazio a un gioiellino di
jazz-rock sospeso tra sogno e incubo come “
Inntal” (con la fantasiosa ritmica di
Shanti Colucci in evidenza), mentre tocca alla cangiante “
Ayida wedo” irrobustire ad arte il pentagramma (notevole l’impatto emotivo delle chitarre
Holdsworth-iane e delle percussioni, che si alternano a solari e sghembe rarefazioni sonore).
La nervosa “
Lada Niva” (singolare la scelta di utilizzare un inossidabile e spartano fuoristrada, in questa narrazione inteso come emblema del legame con la vita terrena più appagante, per simboleggiare l’incapacità di affrontare l’aldilà …), infine, dominata dal flessuoso cantato di
Davide Savarese, arriva a indicare come la sua voce sia forse l’unico “strumento” che, nel contesto generale, meriterebbe una maggiore esposizione.
Una splendida veste grafica (
cover art by Jacopo Tiberi) suggella una gemma dal grande valore artistico, una fantasiosa “macchina dei suoni” messa al servizio di chi nella musica cerca l’intelligenza delle emozioni senza confini.
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