La Norvegia, a dispetto di dimensioni e posizione geografica, è ormai da parecchio tempo una delle nazioni “nodali” per le vicende della musica
rock, in grado di fornire importanti individualità artistiche un po’ in tutti i generi, a partire ovviamente dall’egemonico
black-metal, ma senza dimenticare
stoner,
hard-rock e
alternative.
Slegest è il nome del progetto dell’ex chitarrista dei Vreid
Ese e il suo intento di mescolare la “naturale” estrazione
black con sonorità
doom e
hard m’incuriosiva parecchio, tanto da riservare un ascolto attento al primo lavoro del “gruppo” (in realtà una sorta di
one-man band) risultato,
ahimè, alquanto deludente (impressione, tra l’altro, suffragata dall’autorevole opinione del collega
Caforio che trovate su queste stesse colonne).
Volendo concedere una seconda
chance a un’idea comunque potenzialmente intrigante, diciamo che il secondo “
Vidsyn” si dimostra meno “scolastico” del precedente “
Løyndom”, riuscendo a plasmare la materia sonica in maniera obliqua e abbastanza interessante, all’interno di un prodotto, però, non ancora pienamente soddisfacente o, in qualche modo, “innovativo”.
Il cantato algido, brutale e morboso si scontra con strutture armoniche “figlie” di Black Sabbath, Blue Oyster Cult, Witchfinder General e AC/DC e sebbene il “giochino” funzioni piuttosto bene al primo impatto, purtroppo finisce ben presto per perdere di efficacia, riciclandosi eccessivamente, privo dei necessari guizzi espressivi.
Ecco, dunque, che brani come “
I fortida sitt lys” e “
Som i eit endelikt” (con
Grutle Kjellson degli Enslaved in veste di ospite) trasmettono considerevoli dosi di conturbante inquietudine miscelate a
groove imponenti, allo stesso modo in cui piace l’atmosfera sinistramente bucolica di “
Du”, mentre solo gradevoli appaiono le digressioni di
hard-psych di “
Komfortabelt nommen midtvekes” e gli influssi britannico / australiani concessi a "
Wolf”, per una formula espositiva che progressivamente mostra la corda in maniera sempre più evidente, risollevandosi parzialmente solo grazie al senso di “oscuro malessere” che impregna “
Tenn den gamle varde”.
Un
work in progress che continua destare al tempo stesso perplessità e curiosità … da rivedere.
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