Se la mia ormai un po’ ottenebrata memoria non m’inganna, fu proprio
Bruce Gowdy ai tempi dell’uscita del loro esordio a definire lo stile degli
Unruly Child “
hard progressive pop” e oggi a venticinque anni da quell’impareggiabile opera d'arte tale descrizione appare adatta anche per esplicitare il contenuto di questo nuovo “
Can’t go home”.
Hard, perché il suono è innervato dalla grinta delle chitarre e dalle pulsioni ritmiche,
prog perché non si “accontenta” di allinearsi alla grande tradizione del
rock melodico e alla storia del gruppo (e potrebbe farlo tranquillamente …) e
pop per quel gusto “radiofonico” fresco e vaporoso, capace altresì di non scadere nel manierismo e nella stucchevolezza.
Il ritorno del
Figlio Indisciplinato conserva il suo nobile marchio e non per questo appare “nostalgico”, e un po’ com’era già accaduto con “
Worlds collide”, ci riconsegna un gruppo artisticamente molto “maturo”, dotato di una radiosa capacità di scrittura e di non comuni dotazioni espressive, concentrate in un dinamico e avvolgente miscuglio sonoro, ben lontano dalla banalità di troppa musica contemporanea.
Un disco che, come si dice in gergo, “cresce con gli ascolti” e che dopo una reiterata applicazione decido di collocare, in un’ipotetica classifica di merito, appena dietro il suddetto albo della
reunion, il quale però godeva anche del cosiddetto “effetto sorpresa”.
Arrivati a questo punto, non ci si può sottrarre dal commentare la prova di chi è spesso ancora oggi ricordato quasi esclusivamente per aver marchiato a fuoco un capolavoro come “
Loud & clear” dei Signal … ebbene
Marcie Free non sarà più invidiata per la laringe esplosiva di “quell’altra vita”, ma merita di essere comunque ammirata per le sue spiccate virtù interpretative, accresciute negli anni e oggi davvero encomiabili.
E allora via ad alcune suggestioni d’ascolto, partendo da brani più “facili” come “
The only one” (a cui manca solo un pizzico di
grip nel
refrain), la vagamente Whitesnake-
iana “
Four eleven”, “
Get on top” che invece evoca Dokken e Winger, la sfarzosa “
Point of view” (un misto di World Trade e Def Leppard), le accattivanti “
When love is here” e “
Someday somehow”, e lo
slow “
See if she floats”, dalla presa emotiva istantanea e coinvolgente.
Tra i momenti che richiedono, forse, un pizzico di maggiore attenzione, inserisco l’
AOR interstellare di “
Driving into the future” e “
Ice cold sunshine”, la drammatica catarsi sentimentale di “
She can’t go home” (con qualcosa di CSN & Y negli impasti vocali!) e la sofisticata “
Sunlit sky”, tra Styx e Kansas.
L’ultima annotazione la riservo alla produzione, a quanto pare criticata da ampie frange della “comunità melodica” …
beh, forse non siamo all’altezza della maestria di
Beau Hill e
Ted Jensen o dei mezzi dell’Interscope, e tuttavia l’album “suona” più che dignitosamente, senza svilire oltremodo il lavoro di una
band che mantiene intatta tutta la sua scintillante integrità artistica.
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