Come ogni “esploratore” del
rock più sotterraneo e sottovalutato, accolgo con favore il rientro sulle “scene” dei
Seth, uno di quei gruppi “minori” e poco fortunati che avrebbe sicuramente meritato di più di quello che ha ottenuto.
Dopo aver riesumato il nome della valente formazione Bostoniana attraverso la pubblicazione di una corposa “retrospettiva” a lei dedicata, è ancora il nobile marchio della
Minotauro Records a patrocinare il nuovo parto discografico di
Gerry Stafford e dei suoi
pards, un albo che fin dal primo ascolto rivela una cultura musicale abbastanza impressionante, vissuta “in prima persona” da un musicista che frequenta attivamente questo mondo dalla metà degli anni settanta e non ha perso una stilla dell’atavica necessità “compulsiva” di esprimere la sua visionaria personalità attraverso la musica.
“
Apocrypha”, con il suo immaginario impregnato di antico Egitto e i suoni fascinosamente “imperfetti” e genuinamente “vintage”, seduce attraverso un vortice magnetico di suggestioni cangianti, intense e arcane, mescolando
prog,
hard rock,
NWOBHM,
folk e
blues, evocando lungo il suo percorso le effigi di Rush, Diamond Head, Led Zeppelin, Budgie e Blue Oyster Cult, inserite in un contesto sonoro ricco di temperamento e di sensibilità artistica.
A dire in vero, non tutto funziona alla perfezione, una patina lieve di “ruggine” e qualche disomogeneità espressiva impediscono al programma di decollare in maniera “definitiva” verso i vertici della soddisfazione
cardio-uditiva, ma non è difficile rilevare tra questi solchi un’intensità rara, sconosciuta a molti “retro-rockers” odierni.
Tra raffinate bordate
heavy-blues (“
I’m no saint”), episodi di straniante
hard-prog esoterico (“
Semaj”), rifrazioni più tipicamente
stoner/doom (“
There and now”) e digressioni acustiche (“
Love’s hallowed ground”, qualcosa di assimilabile agli
Zeps con
Ozzy alla voce, e "
The first 29 years”) il programma dimostra saper brillare di una luce ardente e ipnotica, mentre altrove (“
Free world”, una specie di versione primordiale e in acido dei Van Halen e “
Quadragy”, una lunga dissertazione strumentale di
psych/space rock, piuttosto intrigante e tuttavia al contempo un po’ dispersiva) tale luminosità appare lievemente offuscata dalla mancanza di una precisa focalizzazione.
Un buon ritorno, dunque, da considerare, speriamo, come il nuovo “inizio” di un artista che ha ancora molto da dire, a dispetto di ogni
trend e delle imperscrutabili regole del
business musicale contemporaneo.
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