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Christine è sangue che scorre. Christine è vita. Christine è morte. Christine è vita tra la morte. Il viaggio di un’esperienza ai confini della morte. Intenso, vuoto. Un incubo vissuto attivamente inseguendo le allucinazioni e ricomponendole in una impossibile quotidianità"
Questo è il modo in cui ci viene presentato questo progetto strumentale a base di neofolk/jazz/ambient di
Marco Landi, già chitarrista di
Aseptic White, che giunge al debutto con questo "
All Those Years We Weren't Together", un disco senza dubbio ricco di emozioni e frustrazioni personali dell'artista ma che deve giocoforza essere mediato dalla prospettiva lontana ed egoistica dell'ascoltatore.
Innanzitutto, tanto per chiarire le idee, di metal in questo disco non ce n'è manco l'ombra: nessun richiamo, nessuna assonanza, zero totale.
Sgombrato il campo (e la mente) da tali equivoci, l'esperienza
Christine è un viaggio onirico che riuscirà, secondo la sensibilità ed i gusti personali, in maniera completa o meno ma di cui senza dubbio si percepisce la ricchezza, l'eleganza e la ricerca, lo studio tramite il quale lo stesso viene presentato.
Ricchezza, poichè alla "classica" chitarra si aggiungono interventi che non ti aspetti, tipo il sitar o il denso utilizzo di strumenti a fiato, ricchezza che può anche essere una debolezza qualora questi suoni non siano mai stati nelle corde dell'utilizzatore finale.
D'altronde, qui siamo nella nicchia di un genere di nicchia, un lavoro che potrà essere ricercato ed apprezzato unicamente da chi non solo ha la mente e le orecchie molto aperte ma che non ha assolutamente paura di avventurarsi e provare ad immedesimarsi nelle mani e negli occhi altrui; non nascondo che alcuni passaggi di "All Those Years We Weren't Together" siano per il sottoscritto troppo ostici come i virtuosismi jazzistici di "
The Deafening Silence", o magari all'opposto esageratamente soporiferi, tipo il finale della lunga opener "
Slow Blood", ma anche estremamente delicati ed evocativi, vedi la seconda parte della già citata "The Deafening Silence" o la conclusiva e lughissima, quasi epica, "
Rougher Ashes".
Affermare che il disco sia piacevole o scorra bene in sottofondo ci appare come un'offesa alla dignità ed all'intenzione dello stesso ma al contempo assicurare una sicura presa dopo un ascolto è qualcosa che va al di là di ogni ottimistica previsione: solo la vostra sensibilità riguardo al tema e le note toccate potrà, in questo caso, decidere un personalissimo verdetto su un progetto che, in ogni caso, mantiene oggettivamente una propria ed intensa qualità e dignità.
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