Copertina 7,5

Info

Genere:Heavy Metal
Anno di uscita:2017
Durata:40 min.
Etichetta:Minotauro Records

Tracklist

  1. DARK AGES
  2. THE KILLING HAND
  3. DARKENED DESIRE
  4. FACING THE SHAME
  5. BEFORE I SEE
  6. THE BURNING GROUND
  7. LAST DAY OF LIGHT
  8. DAWN OF HOPE

Line up

  • Maurizio Meloni: vocals
  • Alessio Melis: bass
  • Angelo Melis: drums
  • Andrea Alvito: guitars

Voto medio utenti

La musica dal labirinto” della prestigiosa Minotauro Records ci porta oggi a scoprire un’interessante formazione sarda dedita al più nobile power metal americano, in una fiammeggiante combustione di Metal Church, Savatage, Sanctuary, Drive e Crimson Glory.
Nati nel 2002 i Burning Ground scaraventano sull’astante tutta la presumibile frustrazione accumulata negli anni della “gavetta” e, con il furore dettato da una tangibile passione, sfornano un debutto assai godibile, pregno di heavy ossianico e muscolare, appena “sporcato” da ponderate iniezioni di deflagrante thrash metal.
Difficile, se amate il genere, rimanere impassibili di fronte a un lavoro come “Last day of light”, un’imponente e rigorosa serie di passaggi musicali densi di fascino evocativo e d’intensità, ottimamente rappresentati dall’atto inaugurale (dopo l’introDark ages”) “The killing hand”, un potente e oscuro esemplare sonico, oltremodo esplicativo delle notevoli capacità degli isolani.
La voce di Maurizio Meloni si destreggia con disinvoltura tra un dominante approccio rapace e diversioni maggiormente melodiche, ben supportato da chitarre affilate e sufficientemente fantasiose e da una solidissima sezione ritmica, e il martellamento dei sensi prosegue attraverso il riff implacabile e i toni gravi di “Darkened desire”, seguiti dalle poderose raffiche metalliche di “Facing the shame” e dall’efferata epicità di “Before I see”, un misto di dramma e livore di considerevole suggestione.
Un nobile influsso Sabbath-iano (Dio-era) alimenta la vena enfatica di “The burning ground”, mentre tocca alle cadenze plumbee e sinistre della title-track installare l’ultimo coriaceo tassello di questo intrigante muro di note, prima che il breve strumentale “Dawn of hope” lo avvolga con le sue spire ancestrali.
L’US metal ha così un altro esponente di cui essere orgoglioso e il fatto che provenga da una terra tanto lontana dal suo epicentro è solo l’ennesima dimostrazione di uno sconfinato e immarcescibile valore espressivo.
Recensione a cura di Marco Aimasso

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