A distanza di anni, penso che sia stato troppo generoso nell’assegnare un 4,5 alla recensione di
“Illvd…”. In tempi recenti ho provato a riascoltare l’ultima fatica in studio di
Trey Azagthot & Co. e non mi vergogno di ammettere di aver provato un misto di irritazione e repulsione mentre nel lettore scorrevano - fin troppo lentamente ahimè – “perle” come “
Too extreme”, “Radikult” o
“I am morbid”.
Un’unica traccia di 45 minuti di rumore bianco e interferenze avrebbe raccolto più consensi e avrebbe preservato la mia colecisti.
Altri sei anni sono passati, la lineup nuovamente stravolta con il rientro di
Steve Tucker al basso e alle vocals (già presente nella band da “F” a “H”) al posto del transfugo
Dave Vincent - coinvolto insieme a Ti
m Yeung nel progetto
I Am Morbid – e due nuovi innesti,
Scott Fuller (drums, una scelta davvero azzeccata) e
Dan Vadim Von (chitarra)
Cosa aspettarmi dunque da
“Kingodms disdained”? Un rifiuto del lavoro precedente? Oppure una continuazione/evoluzione di “
Illvd…”?
Le anticipazioni girate in rete ci han fatto tirare un sospiro di sollievo, ma le nuvole da dissipare sono tante, tantissime e in questa sede non siamo avvezzi a gridare al capolavoro solo perché si tratta di una band storica o perché fa parte del nostro bagaglio culturale.
Diciamo fin da subito che
“Kingdom Disdained” si ricollega idealmente al periodo “F” e “G” della band, non ad “H” in quanto è più lineare – o meno contorto se preferite - nella struttura, ed è un disco in cui la parola “sperimentazione” è bandita e, siccome a pensar male spesso si azzecca, ho la sensazione che fra le righe il buon vecchio
Trey faccia passare il seguente messaggio : senza
David in mezzo ai piedi i
Morbid Angel ritornano a fare death metal e basta.
E giusto per dissipare eventuali dubbi, lo svolgono dannatamente bene, senza esser per questo un lavoro ruffiano dato alle stampe per recuperare i fan disorientati.
A questo giro di danze
Trey ha puntato tutto sulle sonorità apocalittiche tralasciando l’aspetto prettamente sulfureo della band - niente giri di chitarra lenti e morbosi per intenderci - ma un muro di suoni che arriva da ogni direzione (anche se una tiratina di orecchie ad
Erik Rutan devo farla: basta con questi filtri vocali!) giocando con esperienza fra midtempo (le telluriche
“Architect and iconoclast”, “The pillars crumbling” e “Declaring new war”) e velocità (v. “
Piles of little arms” o “The fall of idols”) unite da un filo unico come perle in una collana.
L’unico consiglio che mi permetto di dare, è quello di ascoltarlo più volte per poterlo apprezzare come si deve, con la dovuta concentrazione, ringraziando adeguatamente i Grandi Antichi per il ritorno del figliol prodigo.