Che l’heavy metal sia in crisi non è un segreto per nessuno: assenza di nuove leve interessanti, con gruppi giovani e inesperti lanciati nella mischia con lavori mediocri, per poi essere immediatamente riassorbiti nel nulla, i nomi storici che, a parte poche eccezioni, sembrano avere definitivamente perso l’ispirazione… insomma, non è certo un bel quadro, tanto è vero che ultimamente mi trovo a far girare nello stereo sempre i soliti titoli, quelli conosciuti a memoria, che mai e poi mai ti potranno deludere. Per fortuna ogni tanto arrivano lavori come questo dei Black Majesty, perché davvero, ritrovarsi nel 2005 con un disco così fa davvero sperare di avere ancora qualche possibilità di salvezza…
Li si conosceva già, questi australiani, autori due anni fa di un disco di debutto davvero valido (“Sands of time”, del 2003), che li poneva a metà tra i primi Queensryche e Fates Warning, un costante richiamo agli anni d’oro della scena americana, pur con una consistente apertura alla modernità.
Questo “Silent Company” ripropone, in forma ampliata e rivisitata, la stessa formula vincente, e ragazzi che disco pazzesco! Già da “Dragon reborn” si capisce che qui non si scherza: cavalcata power impressionante, sostenuta da una prova vocale di eccezionale intensità da parte di John Cavaliere (immaginate Michael Kiske, Bruce Dickinson e Tobias Sammet che si incontrano in un’unica ugola: con i dovuti paragoni, questo ragazzo va tenuto d’occhio!). Il tutto suonato assolutamente alla grande, con un lavoro di chitarra meraviglioso, soprattutto nei soli (gli Iron Maiden sono uno spettro che aleggia costantemente in tutte le nove tracce, ma non siamo nel campo della mera scopiazzatura, bensì della lezione appresa e rielaborata) e un gusto melodico davvero non indifferente. La title track è semplicemente uno dei più bei pezzi metal degli ultimi cinque anni (vi sembro esagerato? Sentitevela!), quattro minuti in cui la scuola americana e quella tedesca si fondono in maniera meravigliosa, non lo toglierete più dal lettore, vedrete!
Il resto è tutto un susseguirsi di piccoli gioielli, da “Firestorm” (più power nell’impronta generale) a “Visionary”, passando per la veloce e orecchiabile “New Horizons”. Unici due episodi a mio parere poco riusciti sono “Six ribbons”, una ballata dal sapore vagamente celtico, con un contrappunto di voce femminile, che però risulta alquanto ripetitiva, e “Darkened room”, che parte con un interessante mid tempo, ma che non riesce a coinvolgere fino in fondo, per colpa anche di un ritornello non proprio azzeccato.
Si chiude nel migliore dei modi con “A better way to die”, epica e sontuosa, un pezzo che se l’avessero fatto i Maiden saremmo letteralmente usciti di testa: se non è la “Hallowed be thy name” del duemila poco ci manca…
L’ultima volta che mi sono esaltato così per un gruppo emergente è stato la scorsa primavera con gli Astral Doors, guarda caso anche loro al secondo disco, guarda caso anche loro pesanti debitori degli anni ottanta. Qui non si tratta di essere innovativi a tutti i costi (anche perché, onestamente, cosa c’è ancora da innovare in questa musica?), ma di scrivere belle canzoni, canzoni che ti rimangano in testa, canzoni da cantare, da pogare… i Black Majesty ce l’hanno fatta, non hanno scritto un capolavoro, ma un grande disco sì, un disco che merita tutta l’attenzione possibile: farselo sfuggire per correre dietro al nuovo Gamma Ray sarebbe un errore imperdonabile…
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