Avevano ammaliato tutti gli
chic-rockers non affetti da
otopatologie invalidanti con un debutto scintillante, poi, pur mantenendosi su
standard artistici proibitivi per molti, avevano destato qualche piccola perplessità, alimentata da scelte discografiche discutibili (due
album di
cover sono un po’ troppi per un gruppo così “giovane”) e da qualche esiguo segnale di appannamento.
Gli
Houston, alla terza prova sulla lunga distanza, erano chiamati a consolidare il loro ruolo di spicco nella ricca coalizione scandinava consacrata all’
AOR, una materia che vede la sua eccellenza sempre più radicata nelle lande del
Vecchio Continente.
Beh, allora diciamo subito che “
III” lambisce la perfezione grazie a canzoni che scorrono agili e fresche e a interpretazioni passionali e calibrate, sostenute da fortissime connotazioni emotive, capaci di soddisfare ampiamente le necessità di ogni
melomane all’ascolto.
Tutto questo a patto che non ci si aspetti una qualche “sorpresa” o barlumi d’illuminata “decodificazione” delle regole del gioco … agli svedesi non interessa modificare una formula consolidata e confezionano un’opera in cui tutte le tipiche componenti del genere sono accuratamente dosate e non lasciano molto spazio all’imprevedibilità.
Un “rigore” assolutamente emozionante, sia chiaro, e tuttavia poiché “
dai migliori si aspetta il meglio”, forse non sarebbe stato troppo pretenzioso attendersi da una valorosa
band “emergente”, ormai giunta a un punto nodale della sua parabola artistica, “anche” uno sforzo creativo supplementare.
Esaurite le note a margine, ci si può concentrare su un programma di altissimo livello che piazza al suo interno almeno quattro frammenti di superba delizia
cardio-uditiva … la melodia elegiaca di “
Lights out”, la celestiale linea armonica di “
Amazing”, l’intensità di “
To be you” e poi ancora l’ammiccante “
Road to ruin” sono autentici colpi da maestri delle sonorità “adulte” ed estinguono all'istante ogni eventuale dubbio sulla qualità superiori degli
Houston.
Assieme a tali svettanti gioiellini fanno una splendida figura l’ardore di “
Cold as ice”, la briosità
hardeggiante (con qualcosa dei The Darkness nell’impasto sonico) di “
Everlasting” e la spiccata ruffianeria di “
Dangerous love”, “roba” che molti
melodic rockers, anche più esperti dei nostri, si possono solo sognare.
Chi ama le vaporose ambientazioni di natura
west-coast-iana, infine, non potrà che entusiasmarsi per “
Glass houses”, “
Twelve-step” e per la solare “
Interstate life” che vi trasporterà in un attimo sulle autostrade americane, evocando un immaginario molto “tradizionale” e ciò nonostante ancora piuttosto efficace.
Sebbene privo di una consistente “evoluzione”, il suono degli
Houston si conferma uno dei più validi e appassionanti nel suo settore di competenza e pone “
III” tra gli eventi musicali più significativi dell’anno … direi che, tutto sommato, ci si può “accontentare”.