Si può rivolgere il proprio sguardo artistico, in maniera assolutamente devota e ammirata, al periodo aureo del
rock senza poi necessariamente infarcire la propria proposta di pavidi luoghi comuni e di un approccio fastidiosamente “revivalistico”?
Analizzando le prove di “gente” come Rival Sons, The Answer, Wolfmother e Graveyard, la risposta è ovviamente affermativa e se, nel torpore della scena attuale, sono in parecchi ad accontentarsi nella riproduzione acritica dei venerabili del settore, di certo possiamo inserire i
Palace of the King tra quelli che, pur recuperando gli elementi fondamentali dell’
hard settantiano, tentano di andare “oltre”, di progredire prendendo ad esempio proprio i migliori “restauratori” contemporanei di quei suoni leggendari.
In tutta onestà, come già accaduto in passato, non mi sento di affermare che gli australiani siano pienamente all’altezza dei loro modelli e ciononostante “
Get right with your maker” è un albo complessivamente così “fresco” e ben fatto da rendere quasi impossibile il “contagio”.
Qualcosa lungo il programma non funziona alla perfezione, soprattutto in fatto d’incisività del
songwriting, ma sono altresì convinto che di fronte alla magnetica opener “
I am the storm” saranno in molti a dover ammettere che i nostri non amano particolarmente le letture superficiali dei “classici”.
“
It's been a long time coming”, palese e banalotta celebrazione dei conterranei AC/DC (e dei primi Cinderella!), in realtà, sembra smentire l’assioma appena enunciato, e per fortuna arrivano il pingue
rhythm n’ soul di “
Sold me down the river“ e il
groove pulsante di “
A dog with a bone” ad allontanare l’idea che l’atto di apertura fosse solo un episodico momento “fortunato”.
In “
Said the spider to the bird” il soffio ardente del
blues n’ roll gonfia la bandiera confederata, “
Move through the fire” trasporta
Zeps e
Purples dritti nel terzo millennio, mentre “
The serpent” e “
Horizon” (con la seconda che appare la replica un po’ stanca della prima) aggiungono all’impasto sonoro dense convulsioni
funk.
La cangiante “
Fly like an evil”, la rocciosa “
Back on my feet again” e la
ghost-title-track acustica (molto
Zeppelinesca) sono le ultime godibili scosse di un disco che tenta di conferire alla definizione “retrò” un significato ampio e atemporale … anche se l’intento non può dirsi pienamente raggiunto, in mezzo a tonnellate di musica di musica “emergente” troppo spesso priva di senso e direzione (spero perdonerete il piccolo sfogo, dettato anche dalla recente visione del cosiddetto “concertone” del primo maggio …), i
Palace of the King confermano il loro ruolo di promettente realtà.
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