Mi appresto all’ascolto di “
Gravity” con alcune convinzioni e tante speranze … dopo il favoloso “
Legacy” nessuno potrà dare per “scontata” l’arte dei
Praying Mantis, per troppo tempo annoverati tra gli aurei “perdenti” della
NWOBHM e poi spesso considerati degli esperti veterani in cerca di glorie perdute.
L’auspicio che il nuovo disco possa contribuire ulteriormente a rinsaldare, finalmente, il meritato riconoscimento, diventa così, oltre al desiderio del
musicofilo, anche un’altra occasione per veder concretizzato quel sentimento di “rivalsa” da indirizzare ai loro detrattori.
Ebbene, fedeli al motto “squadra che vince non si cambia” i britannici si presentano al pubblico dell’
hard melodico e pomposo con la medesima formazione e gli stessi obiettivi del lavoro precedente, decisi a conquistare il consenso degli estimatori di Rainbow, MSG, Magnum e Thin Lizzy.
L’impresa può dirsi realizzata, anche se francamente non mi sento di equiparare del tutto “
Gravity” al suo illustre predecessore, a causa di appena un pizzico di formalismo che gli impedisce di raggiungere quei vertiginosi livelli di seduzione.
Rimane la personalità schiacciante di una
band di enorme talento e qualità, che stavolta, però, non è riuscita a mantenere costante il livello d’intensità espressiva, finendo talvolta per riciclare forse troppo i temi che l’hanno resa una protagonista del genere.
Si comincia piuttosto bene con “
Keep it alive”, che possiede l’immediatezza e la grinta richieste a un eccellente singolo di
hard-rock, e con la
grandeur enfatica di “
Mantis anthem”, mentre soltanto il grande
refrain offerto a “
Time can heal” salva il pezzo dal rischio dell’anonimato “adulto”.
L’evocativa “
39 Years”, l’ardore celtico della
title-track e i toni sinfonici di "
Ghosts of the past” riportano in alto le
chance dei
Praying Mantis nell’ottica di una consacrazione “definitiva”, e lo stesso si può affermare pure per le elegiache “
The last summer” e “
Foreign affair” e per la perla melodica "
Shadow of love”, marchiate dal
pathos vocale di un sempre ottimo
John Cuijpers.
Leggermente meno efficaci, infine, appaiono “
Destiny in motion” e “
Final destination”, un’esibizione di classe non straordinariamente emozionante, che piace senza entusiasmare.
L’
artwork curato ancora una volta dal celebre
Rodney Matthews avvolge un albo di livello superiore, l’ennesima opera di passione e competenza di un gruppo che però a tratti sembra fin un po’ troppo “appagato” e che invece farebbe bene a non dimenticare quanto possano essere produttivi gli effetti di una sana voglia di “rivincita”.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?