“
Nostalgia, nostalgia canaglia, che ti prende proprio quando non vuoi …” … mi appropinquo all’analisi di “
All you need is soul” e mi vengono in mente i “sommi” versi di un caposaldo del
trash-pop italico, per fortuna non per i contenuti musicali del prodotto, ma per l’approccio esibito dal suo autore, che oggi, evidentemente colto da un attacco di “amarcord”, decide di presentarsi con il
monicker Jizzy Pearl of Love/Hate, rievocando in maniera esplicita il modo in cui catalizzò, all’alba degli anni novanta, l’attenzione dei sostenitori dello
street-metal.
Dopo quell’esperienza la carriera del nostro si è sviluppata tra alti e bassi (L.A. Guns, Ratt, Adler’s Appetite, Quiet Riot e carriera solista …) senza mai, ammettiamolo, ripetere i fasti dei primi Love/Hate, e se il buon
Pearl stavolta ha deciso di ritirarli in ballo in modo così evidente (“
… è il miglior disco che ho fatto da "Blackout in the red room" …” si legge nelle note promozionali dell’opera …), è perché “sente” che il nuovo lavoro è veramente all’altezza del suo glorioso passato.
Beh, quali che siano le sue “sensazioni” e i motivi di tale scelta (compreso, ovviamente, quello squisitamente “commerciale”, in tempi di diffuso
revival …) diciamo subito che l’albo è abbastanza distante, in fatto di
feeling bruciante e primitivo, dalle migliori prove di un cantante che però conserva un’apprezzabile forza espressiva nella sua aspra e vigorosa laringe, mai autoindulgente e diventata più matura con il trascorrere del tempo.
Forte di un
songwriting di buona caratura, delle chitarre incisive di
Darren Housholder (anche lui proveniente dai Love/Hate, con cui realizzò “
Let’s rumble”) e della solida sezione ritmica appannaggio di
Mark Dutton e
Dave Moreno (Puddle of Mudd), “
All you need is soul” si dimostra un prodotto di livello, istintivamente intriso di
hard,
blues e
rock n’ roll, capace di essere al tempo stesso selvatico e vischioso.
L’assalto all’insegna del
rough n’ vicious dell’
opener “
You're gonna miss me when I'm gone”, lascia spazio al
bluesaccio “stradaiolo” “
Comin' home to the bone”, riservando fin da subito più di un sussulto, mentre meno efficaci appaiono le rifrazioni AC/DC-
iane di “
High for an eye”, la solo godibile "
House of sin” e le vagamente Alice In Chains-
esche “
When the devil comes” e “
Little treasures”.
La graffiante e caleidoscopica
title-track garantisce nuovamente notevoli scosse, al pari del
groove degenerato di “
Mortified”, “
Frustrated” e “
Mr. Jimmy”, tutta “roba” a elevata gradazione emozionale.
Una briosa ballata, “
You don't know what it's like” e uno
slow in odore di GNR, “
It doesn't matter”, completano un programma a cui assegnare una promozione ampia e che tuttavia non “regge” un confronto che forse, caro
Jizzy, non è stato “strategicamente” così proficuo evocare.
Insomma, per chiudere questa breve disamina in maniera analoga a com’è stata aperta, potremmo affermare che “
si può dare di più perché é dentro di noi, si può dare di più …”, poiché, da
Jizzy Pearl of Love/Hate, io mi aspetto davvero grandissime cose.
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