Perso per strada, non senza qualche polemica, il vecchio cantante
John Haughm, gli
Agalloch risorgono con 3/4 della vecchia line-up, consistente di
Don Anderson,
Jason William Walton ed
Aesop Dekker a cui si aggiunge l'ex
Giant Squid Aaron John Gregory, per dare luce a questa nuova forma chiamata
Khôrada, tornando dopo più di 10 anni alla vecchia etichetta che gli diede una relativa fama con "
Ashes Against the Grain", dopo che comunque già "
Pale Folklore" e "
The Mantle" avevano avuto un ottimo riscontro di critica negli anni alla
The End Records.
E' bene specificarlo fin dall'inizio, "
Salt" in tutto e per tutto NON è un nuovo album degli Agalloch, non ritroveremo la stessa glacialità, non si avverte il doloroso nichilismo e le intense emozioni che nel passato ci ha regalato la band di Portland: oltre all'ovvia notevole differenza di stile vocale tra Haughm e Gregory, il sound dei Khôrada è molto più debitore degli anni '70, assai più grasso e sporco, ed anche nelle partiture più veloci ed "estreme" - sebbene piuttosto rare - si ha maggiormente l'impressione di assistere ad una band stoner sotto adrenalina che altro.
Ho volutamente usato le virgolette per descrivere l'aggettivo estreme, poichè è bene specificare che la deriva post-black qui è totalmente assente, sia nell'ugola di Gregory sia nelle chitarre di Anderson; i soli momenti di unione con il passato si avvertono talvolta nell'utilizzo di alcune melodie malinconiche e sognanti, che vengono tosto spazzate via dal vocione greve del nuovo vocalist, a cui non nego che vada conceduto del tempo per abituarsi.
Abitudine che poi arriva, per fortuna: non vi nascondo che dopo il primo ascolto "Salt" ci abbia lasciato decisamente con l'amaro in bocca, amaro che è rimasto per un bel po', fin pian piano a dissolversi man mano che l'assimilazione si faceva più completa e definitiva; rimane la sensazione che ci sia qualcosa fuori posto, specie durante brani come "
Glacial Gold", quasi arabeggiante e desertica nel suo incedere, così calda ed arida in contrapposizione al titolo che porta ed alle atmosfere dell'Oregon cui eravamo usi, ma senza dubbio rimane una prova di grande classe ed epica intensità, al pari del tema trattato lungo il concept riguardante la cupidigia e l'acrimonia del genere umano, che ha trasformato la Terra su cui viviamo in un pianeta morto, destinato ad ingoiarci tutti quanti nel suo tragico destino.
Gli episodi migliori, come spesso accadeva, li troviamo sul finire di "Salt", con la magnifica e disperata doppietta di "
Wave State" ed "
Ossify" - di cui vedete il video in calce a questa recensione, non curiosamente i due brani più lunghi dell'album che vanno agevolmente a superare i dieci minuti di durata.
A volte probabilmente fin troppo esitante nell'eccessivo, e per questo di difficile assuefazione, ma di indiscusso valore artistico e letterario. Concediamogli il tempo che merita, senza guardare ad uno scomodo passato.
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