Quante volte, cari
chic-rockers all’ascolto, ci è capitato di rispolverare dalla nostra preziosa collezione il lavoro di qualche “vecchia gloria”, che si tratti di stelle di riconosciuta grandezza o di balenanti “meteore”, e di rendersi conto di quanto sia difficile per le nuove leve sostenerne il confronto?
I motivi sono molti e comprendono (paradossalmente …) aspetti tecnici, una cura per gli arrangiamenti e per i dettagli musicali oggi non sempre adeguata, oltre, ovviamente, all’effetto “amarcord”, ma bisogna ammettere che è abbastanza raro ascoltare produzioni contemporanee veramente “all’altezza”, capaci di sfruttare i codici immarcescibili dell’
Adult Oriented Rock con una sensibilità propria, aggiungendo alla lezione dei
Maestri la necessaria razione di vitalità e di passione.
Ebbene, a beneficio di quella frangia di pubblico esigente e mai sazio di nuove sensazioni melodiche, segnalo con inusitato entusiasmo il primo
full-length dei
Creye, una luccicante formazione scandinava in costante equilibrio tra pressanti e suggestivi richiami al passato del genere e il giusto slancio verso il suo futuro.
Nulla di particolarmente “rivoluzionario”, sia chiaro, eppure quando le composizioni hanno la freschezza e il buongusto di quelle contenute in “
Creye”, si può tranquillamente affermare che è ancora possibile onorare la tradizione senza vivere unicamente di trascorse nostalgie.
Già autori nel 2017 di un apprezzato
Extended Play ("
Straight to the top", cantato da
Alexander Strandell di Art Nation e Diamond Dawn), i nostri svedesi sfornano per
Frontiers Music, sempre più
Regina del mercato discografico di categoria, un disco straordinario, suonato da musicisti eletti e pilotato dall’ugola sicura e fascinosa di
Robin Jidhed, che dal padre
Jim (
singer degli Alien, nonché artefice di una pregevole carriera solista) ha evidentemente ereditato le terse intonazioni vocali tipiche del
sound melodico nordeuropeo.
Il resto lo fanno composizioni intrise di
pomp e di
rock “radiofonico”, a cui si aggiunge un pizzico di
synth-wave in grado di rendere ancora più accattivante uno sviluppo sonoro con pochissimi punti deboli.
Se avete amato White Sister, Drive She Said, Europe, Alien e Bad Habit, e avete poi provato sentimenti analoghi per One Desire, State of Salazar, H.E.A.T. e Art Nation non potrete proprio “resistere” di fronte alla
grandeur armonica di “
Holding on” e “
Nothing to lose”, che uniscono istantanea fruibilità a una prorompente forza espressiva.
“
Different state of mind” sfrutta al meglio la brillante vena
pop del gruppo, l’avvolgente “
Never too late” e la bellissima "
Straight to the top” ci ricordano perché il
3-tks Ep (il terzo brano era una pregevole versione di “
No easy way out” di
Robert Tepper) dei
Creye era stato così gradito da pubblico e critica, mentre “
All we need is faith” ammalia con una squisita dose di estatico romanticismo.
Un
pathos che ammanta anche la sontuosa “
Miracle” e che si trasforma in un inno di retaggio
ottantiano nella contagiosa “
Christina”, il cui
refrain si fissa con innata disinvoltura nelle profondità della corteccia cerebrale.
Il ricorso a un modesto eccesso di
cliché sentimentali zavorra l’efficacia di “
Love will never die”, e ci pensa subito dopo il dinamismo vagamente Journey-
iano concesso a “
Still believe in you” a riportare il programma nel solco dell’eccellenza, percorso anche dalla sagace ruffianeria di “
City lights”, dalle armonie vaporose di “
Desperately lovin’” e dalle regali e solari atmosfere di “
A better way”.
I sei di Malmö non temono il paragone con la “storia” del settore o, per meglio dire, come si richiede a emergenti di valore e personalità, non se ne preoccupano, alimentati da qualcosa di più “alto” e istintivo di un semplice (per quanto magari anche parecchio costruttivo ...) spirito d’emulazione.
Nella speranza di vedere la
band inserita nel
bill del prossimo
Frontiers Rock Festival, accogliamo “
Creye” tra le priorità melodiche del 2018.