E' con una splendida e magnetica copertina che tornano gli
EINHERJER con il loro settimo album "
Norrøne Spor", oppure ottavo se vogliamo considerare come album a se' stante "
Dragons of the North XX" uscito due anni fa, ovvero il loro debut album risuonato e ri-registrato completamente in occasione del suo ventennale.
Pur essendo tra i prime-movers della scena pagan-viking avendo esordito nel lontano 1995 con l'ep "
Leve vikingånden", la band da sempre capeggiata dal duo
Gerhard Storesund / Frode Glesnes non è mai riuscita a raggiungere una certa notorietà e riconoscimento, anche all'interno del genere stesso; un po' a causa di una qualità invero non sempre altissima ed anzi priva di picchi clamorosi, ed un po' perchè molto crudi, quasi scarni, privi di elementi più epici o melodici che consentissero una più facile assimilazione da parte del pubblico.
In effetti la musica degli Einherjer è fredda, molto asettica, spoglia anche in fase di registrazione a partire dal suono delle chitarre e della secchezza della batteria, niente cori ruffiani, niente tastiere sognanti in primo piano, solo gelo ed una voce molto black metal, ma d'altra parte questo ha reso il loro sound quasi unico, sempre riconoscibile e personale, e nel marasma attuale questo può facilmente essere ribaltato in un lato altamente positivo: unendo a ciò il fatto che "Norrøne Spor" sia uno dei loro album più continui ed equilibrati, ecco che forse finalmente i norvegesi potrebbero trovare uno squarcio di luce.
Uno squarcio, perchè comunque anche questo capitolo si porta dietro la maledizione degli Einherjer, quella di non riuscire a confezionare un lavoro completamente esente da difetti: due dei tre brani in inglese invece della loro lingua madre sono nettamente meno validi degli altri, ed addirittura uno di essi ("
The Spirit of a Thousand Years") è stato posto in apertura, sebbene con un'altra produzione possa tranquillamente apparire in un album dei The Offspring... Fortunatamente già dal secondo brano "
Mine våpen mine ord" tutto viene sistemato ed anzi lentamente il disco prende forma e valore, tant'è che si ha un vero e proprio boost qualitativo a partire da "Mot Vest" in poi, includendo "
The Blood Song", le influenze folk di "
Tapt uskyld", la cavalcata di "
Døden tar ingen fangar", scandita dalle harsh vocals di
Grimar e cesellata da un solo quasi atipicamente "caldo" per i freddi Einherjer, più che una semplice formazione musicale quasi un amalgama della cultura norvegese, delle vecchie saghe, della prosa dell'Edda, dei vichinghi e della natura che avvolge la loro magnifica terra, il tutto reso con un taglio più attuale e moderno dei loro colleghi.
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