Molto spesso parlando di stoner ho tirato in ballo i Dozer, pionieri svedesi della scena che se non altro hanno il merito di essere sopravvissuti fino ad oggi, mentre colleghi ben più noti ed incensati sono spariti già da tempo.
Caparbi ed onesti, portano avanti la loro carriera ormai da un decennio, senza essere mai riusciti a scrollarsi di dosso quell'etichetta di band di settore per soli appassionati, affibiata loro da buona parte della critica che conta. A quest'ora se ne saranno fatti una ragione, ed è un valido motivo per restare fedeli alla linea stilistica di sempre, evitando di inseguire il miraggio di un improbabile successo di massa. Anzi, il Dozer-sound rappresenta oggi il prototipo dal quale si è sviluppato una sorta di sotto-genere che possiamo definire scandi-stoner. Un sentiero che certamente ha preso origine dal desert-rock californiano elaborato da Homme e soci, ma trasportato oltre oceano si è contaminato con lo spirito iperboreo delle genti scandinave, mutando in un ibrido composto da massicce strutture heavy e da atmosfere di gelida penombra sconosciute ai profeti che bazzicano gli assolati deserti americani.
In qualche modo la coerenza del quartetto di Borlange alla fine è stata premiata dal contratto con la Small Stone. Certo l'etichetta di Detroit è poco più di una formica in un mondo di giganti, ma in ambito stoner è anche quella che ha maggiormente ereditato la funzione di punto di riferimento che in passato fu della Man's Ruin, quindi per i ragazzi svedesi giungere a questa collaborazione dev'essere stato fonte di un certo orgoglio.
Non stupisce allora che i Dozer abbiano cercato di esprimere tutto il potenziale a loro disposizione in questo quarto capitolo discografico.
Ci sono i classici brani stoner pieni di ritmiche tambureggianti intermezzate da una brillante vena melodica ("Drawing dead, Omega glory, Blood undone") che rappresentano il marchio di fabbrica della band, alcuni spinti fino a sposare quell'immediatezza marziale che ha fatto le fortune degli El Caco ("Born a legend, Man of fire") mentre in altri momenti l'impatto si ammorbidisce per fare posto alle malinconiche atmosfere notturne patrimonio comune di quasi tutte le bands nord-europee ("Days of future past").
Questa volta però i Dozer hanno voluto esprimere anche un aspetto più metallico ed aggressivo che in precedenza era stato poco esplorato, così ci imbattiamo in una bordata heavy violenta ed urlata ma di sviluppo non banale ("From fire fell") e perfino in una ipotesi di post-metal avvolgente alla Mastodon ("Until man exists no more") certificata proprio dalla presenza vocale di Troy Sanders, bassista/cantante del quartetto americano.
Infine non può mancare in un album dei Dozer l'episodio dilatato dai caratteri sinuosi e spaziali, le spire cadenzate e magnetiche che ci fanno sognare orizzonti cosmici inimmaginabili, otto minuti di splendida tensione visionaria ("Big sky theory") che chiudono al meglio un lavoro dai passaggi a vuoto praticamente inesistenti.
Ciò non significa automaticamente che sia il miglior capitolo della discografia del gruppo, per stabilirlo occorre una valutazione su tempi più lunghi, ma certamente si può già considerare il più corposo e composito. Per i fans averlo è un obbligo, per tutti gli altri è un'ottima occasione per fare conoscenza con una valida formazione heavy rock/stoner che è tutt'altro che un clone derivativo.
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