Ricordo ancora quando, oramai più di 10 anni fa, correva esattamente l’anno 2007, ascoltai per la prima volta “
Calling The Earth To Witness” il debut album di questi ragazzini svedesi, intrigato più dal loro monicker “
DARKWATER” che da altro, ed in me sono ancora vivissime le sensazioni positive e le emozioni che seppe trasmettermi quell’esordio discografico. In quel periodo il mondo del prog metal attraversava un momento non certo semplice, perfino i maestri
Dream Theater iniziavano a dare segni di stanchezza e non trasmettevano più le sensazioni di una volta, mentre altri mostri sacri come i
Symphony X viravano verso un sound più roccioso, abbandonando l’iniziale neoclassical-prog per sconfinare verso lidi più power-trash, ecco perchè in quel lontano 2007 un album come “
Calling The Earth To Witness”, cosi come “
Anima” dei francesi
Spheric Universe Experience o “
Isolate” dei norvegesi
Circus Maximus, facevano quasi gridare al miracolo e sembravano ridare nuova linfa vitale a tutto il movimento.
Purtroppo 3 anni più tardi, con il successivo “
Where Story Ends” i
Darkwater non seppero ripetersi, sfornando un album alquanto insipido che, sebbene contenesse delle melodie tutto sommato piacevoli, era fin troppo diretto, poco elaborato, ma soprattutto privo di una vera e propria anima, indubbiamente meno ispirato rispetto al precedente.
A quella mezza delusione sono seguiti 9 lunghissimi anni di silenzio, per cui tra i seguaci della band, si è inevitabilmente creata una grandissima attesa per questo nuovo disco che, come sempre accade per il terzo lavoro in studio di una band, viene spesso definito il cosiddetto “album della verità”, a maggior ragione per il combo svedese che viene da 2 prove contrastanti tra loro, quindi la “prova del disco n. 3” li può consacrare o, in caso contrario, seppellirli definitivamente.
“
Human” (questo il titolo del full-length), viene dato alla luce nel marzo 2019 con la medesima line-up del precedente album (quindi
Simon Andersen, ex-
Pain Of Salvation al basso,
Tobias Enbert alla batteria,
Markus Sigrfidsson alla chitarra,
Magnus Holmberg alle tastiere ed
Henrik Bath alla voce) ma, a differenza di allora, a colpire immediatamente l’ascoltatore, sin dalla opener “
A New Beginning” è la passione che i nostri ci mettono in ogni singola nota suonata o cantata. L’intrigante giro di tastiera che caratterizza la song iniziale, e che ricorda vagamente quello di "
The Accolade" dei
Symphony X, viene ripetuto più volte e non stanca mai ma anzi rapisce, rafforzato dalla rocciosità della chitarra, mentre la melodicissima voce di
Henrik Bath si fa molto più espressiva rispetto al passato, richiamando quella del connazionale
Tommy Karevik di
Kamelot e
Seventh Wonder. Insomma, l’inizio sembra promettere bene, ma le delusioni musicali in questo periodo sono sempre dietro l’angolo, meglio dunque non illudersi. La successiva ”
In Front Of You” è il classico “pezzo alla
Evergrey”, inevitabile fonte di ispirazione onnipresente per tutte le bands svedesi che vogliono cimentarsi nel prog-power, canzone malinconica che regala emozioni forti dal sapore agrodolce, dalla struttura complessa con melodie talvolta tradizionali, talaltra arabeggianti, richiamando in questi frangenti vagamente quelle dei tunisini
Myrath.
Si passa poi a “
Alive”, suddivisa inspiegabilmente in due parti, e qui sembra di riascoltare i
Darkwater del precedente album, per l’andatura eccessivamente regolare del brano, soprattutto nel refrain (non a caso il pezzo è stato scelto come singolo), non l’ideale insomma per un amante del progressive in senso stretto, tuttavia la sua musicalità si fa apprezzare riuscendo ad arruffianarsi le simpatie del pubblico . Dopo una traccia cosi diretta, ecco che arriva, quasi a fare da contraltare, quella più lunga dell’intero lavoro, ovvero “
Reflection Of A Mind”, della durata di 11 minuti e mezzo, e qui le atmosfere si incupiscono, mentre le linee melodiche, sempre belle, ora si fanno molto più introspettive, sembrano scavare nell’anima dell’ascoltatore, che inevitabilmente entra in contatto con le proprie emozioni più intime, ed ecco che finalmente sono tornati i primissimi
Dakwater, quelli più profondi e progressive! Unico neo del pezzo, che l’avrebbe reso davvero ottimo, è probabilmente la mancanza di un convincente assolo di chitarra, che “si limita” a tessere la trama del brano, mentre è a dir poco eccellente il lavoro operato delle “sognanti” tastiere di
Magnus Holmberg.
Siamo esattamente a metà disco e la curiosità di ascoltare la seconda parte è enorme, cosi si passa a “
Insomnia” che ricorda alcuni lavori più recenti dei
Kamelot, pezzo alquanto diretto ma assai convincente che sul finale regala un’impennata improvvisa di sensazioni forti grazie al botta e risposta tra la chitarra di
Markus Sigfridsson e la tastiera di
Holmberg. Passione allo stato puro, è la parola d’ordine anche per le successive “
The Journey” e “
Burdens” pezzi che risultano freschi ed ispirati riuscendo davvero ad emozionare, grazie a delle atmosfere che di fondo rimangono malinconiche e che ricordano vagamente i
Seventh Wonder di “
Mercy Falls”.
La penultima traccia “
Turning Pages” è forse la più riuscita ed anche la più progressive nell’accezione più stretta del termine; intro affidato ad un arpeggio a cui seguono delle chitarre rocciose con tempi dispari che si alternano a ritmiche serrate interrotte improvvisamente da un suono pulito di tastiera che apre verso linee melodiche e vocali in continua evoluzione dando vita ad una struttura cangiante che si attorciglia più volte su sé stessa conclusa da una bellissima parte strumentale affidata al duo
Sigfridsson-Holmberg che sembrano trasportare l’ascoltatore in universo parallelo fatto di sogni e sentimenti. Si giunge alla conclusiva “
Light Of Dawn”, canzone in cui sin dall’inizio si viene travolti da un melodicissimo vortice di note sparate a tutta velocità da tastiera e chitarra che sembrano richiamare i
Dream Theater di “
These Walls” di “Octavariumiana memoria”, le ritmiche alternano fasi più cadenzate ad altre più veloci, dando un andamento sincopato all’intero brano, in piena tradizione progressive, mentre la voce di
Bath rende più armonico tutto l’insieme.
Insomma, in conclusione possiamo dire, tornando al discorso iniziale, che per i
Darkwater “la prova del terzo disco” è stata ampiamente superata. Non era semplice tornare dopo 9 anni di silenzio e convincere nuovamente coloro che avevano storto il naso per “
Where Story Ends”, (che poi erano gli stessi che avevano gridato al miracolo per il disco d’esordio) reo di non avere un’anima, e la principale differenza con “
Human” , che è indubbiamente un ottimo disco, dove viene anche recuperata la complessità del passato nella struttura dei pezzi, sta proprio nella passione che il combo svedese sembra aver ritrovato e di conseguenza, nelle emozioni che riesce a trasmettere anche nelle sue parti più dirette, comunque presenti all'interno del disco, ma stavolta ispiratissime. Se proprio si vuole trovare un difetto, forse l’album potrebbe risultare un pò troppo prolisso, ma di certo non annoia, proprio per la sua varietà, le sue molteplici sfumature, le sue linee melodiche che nel contempo riescono ad essere delicate, aggressive, dolci e malinconiche ma soprattutto per quella sua capacità di saper toccare le corde più intime della sensibilità umana.