Il regalo di Natale degli
AFI ai loro fan è un EP con un pugno di brani, che arriva un po’ a sorpresa. Gli
AFI sono un gruppo che non avrebbe bisogno di dimostrare nulla a nessuno, a questo punto della carriera: hanno superato l’hardcore delle origini, hanno pubblicato un album semplicemente perfetto come
“Sing The Sorrow”, hanno anticipato l’esplosione emo di metà anni duemila (ehi, ma ve lo ricordate l’emo?) per poi prenderne le distanze quando la scena era all’apice e dedicarsi ad un rock più maturo.
È evidente però che negli ultimi dieci anni i membri del gruppo stiano cercando di capire che direzione dare alla loro creatura, orientandosi verso un ritorno ai suoni degli anni precedenti, a volte ben riuscito (
“Burials” del 2013), a volte meno (il
“Blood Album” del 2017). Sarà complice anche il fatto che il cantante
Davey Havok abbia accumulato non uno ma tre side project (uno hardcore, uno elettronico, uno pop) in cui sfogare la voglia di fare qualcosa di diverso, ma sembra proprio che ora gli
AFI stiano tornando a fare quello per cui si sono fatti amare: un punk rock che sa spaziare tra i suoni più aggressivi e quelli più malinconici senza perdere una propria identità distintiva.
“Trash Bat” apre meravigliosamente l’EP con una sfuriata hardcore martellante, mettendo in chiaro come i nostri non siano affatto troppo vecchi per questo gioco; concetto che ribadiranno due tracce dopo con
“Get Dark”. Il gruppo è in splendida forma,
Davey usa ogni sfumatura della voce, la sezione ritmica è un motore perfetto, mentre la chitarra è libera di divertirsi nei modi più vari. In mezzo, troviamo la notevole
“Break Angels”, il tipico mid-tempo alla
AFI, perfettamente eseguito, e
“Back Into the Sun”. Quest’ultimo è l’unico mezzo passo falso del disco: sebbene piacevole sembra molto debitore del rock di fine anni ’90, al punto da lasciarvi la fastidiosa sensazione di aver già sentito qualcosa di simile altrove.
“A Missing Man” è la vera sorpresa, posta in chiusura dell’EP e caratterizzata da un incedere ipnotico di chitarra acustica, cresce fino ad esplodere, permettendo agli
AFI di mostrare ogni loro sfaccettatura.
La produzione è affidata al chitarrista
Jade Puget, come già nell’ultimo album. Tuttavia, se nel precedente lavoro l’impressione era che avesse messo molto in evidenza il suo strumento e la voce, a discapito del resto, stavolta ogni brano appare ben costruito ed ogni membro del gruppo ha i suoi momenti di gloria.
Un disco che, senza troppe sorprese, conferma la bravura di un gruppo che ha saputo essere eccezionale, ed ora invecchia con stile.
Recensione a cura di Francesco "Lucio" Lucenti
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