In un universo, quello dell’
hard melodico, pieno di “dinosauri” in ottima forma, è veramente difficile per un gruppo giovane cercare di emergere, magari provando in qualche modo a “svecchiare” un suono che in realtà spesso prospera proprio in virtù della sua fedele aderenza alla tradizione.
Non si può, dunque, non plaudere istintivamente chi, come i nostri
The Brink, decide d’intraprendere questa strada irta e rischiosa, nello specifico solcata mescolando sonorità “classiche”,
pop-punk e
radio-rock contemporaneo.
Ascoltando “
Nowhere to run”, il primo
full-length degli inglesi, mi sento di affermare che il nobile tentativo di distinguersi nel marasma della discografia attuale appare, però, riuscito solo a metà, in quanto un po’ incostante negli effetti emotivi e lievemente troppo lezioso in alcuni passaggi musicali.
Insomma, nonostante una notevole padronanza degli strumenti, una voce mordace ed energica e una certa cultura, la
band britannica evidenzia alcune lacune nel comparto compositivo, un aspetto piuttosto evidente fin dall’
opener “
Little Janie”, intrigante e tuttavia alla lunga abbastanza evanescente fusione tra Skid Row, Poison e Sum 41.
La grinta e il coro infettivo di “
Break these chains” acuiscono il
grip emozionale e anche la bella “
Never again” finisce nell’elenco delle
menzioni d’onore, in virtù di una gestione più oculata e seduttiva delle diverse sfumature stilistiche.
La
ballatona “
Save goodbye” (presente anche in versione acustica), non lontana dalle atmosfere care ai Manic Street Preachers, sconta qualche eccesso di sdolcinatezza, reiterato anche nella successiva “
Take me away” e poi spazzato via dalla potente “
One night only”, un intenso numero di
hard-blues in cui far felicemente convivere Def Leppard e Black Stone Cherry.
Tre godibili brani dagli sviluppi melodrammatici intitolati “
Wish”, “
Are you with me” e “
Nothing to fear”, allettano in buona misura e si combinano egregiamente con l’aggressione sensoriale della potente “
Said and done” (una specie di Gn’R
meets Offspring), della
punkeggiante “
Fairytale” e della melodia graffiante di “
Don’t count me out”, mentre, dopo la solamente sufficiente “
No way back”, tocca a “
Burn” piazzare l’ultima scossa del disco, equamente ripartita tra rabbia e malinconia.
Non rimane, infine, che accogliere con benevolenza il lavoro dei
The Brink, ancora un po’ ingenuo e perfettibile in taluni sincronismi espressivi, eppure degno della considerazione e del sostegno che si dovrebbe riservare all'esuberanza e “all'incoscienza” di tutti quelli che non si accontentano di celebrare pedissequamente la “storia” del
Rock n’ Roll.
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