Sebbene sia una formazione italiana capace di meritarsi l’interessamento di un’etichetta di rilievo internazionale, dubito che gli Ephel Duath vantino un seguito numericamente imponente nel nostro paese. Ad essere onesti penso che ciò valga anche dalle altre parti, visto che malgrado il gruppo riceva da tempo il plauso unanime della critica, ho idea che ciò non abbia modificato in maniera sensibile il suo status di cult-band per la limitata cerchia di ammiratori.
Il motivo è sempre il solito, comune a tutti coloro che portano avanti un discorso d’avanguardia. Gli Ephel Duath hanno ultimato una proposta personale e particolare che ha il suo fulcro nella sperimentazione e nell’inserimento di caratteri innovativi. Uno stile colto frutto di un lungo lavoro di ricerca, che non si presta ad essere contenuto entro limiti predefiniti e non si basa su schemi scontati e prevedibili. Ma è anche una musica indiscutibilmente difficile, impegnativa, profondamente cerebrale, faticosa da decifrare, alla quale è necessario dedicare moltissimo tempo ed altrettanta concentrazione nella speranza di esplorarla completamente.
E queste sono proprio le cose che scarseggiano in quest’epoca frenetica e superficiale, dove perfino la musica pesante è spesso ridotta a sottofondo usa-e-getta per riempire piccoli ritagli liberi tra i mille impegni della giornata.
Al contrario, il nuovo album del gruppo nostrano di attenzione ne richiede dosi enormi. Si è accentuata la rinuncia alla forma-canzone, i brani sono stati dilatati fino a perdere la propria identità specifica e sfumano l’uno nell’altro per formare una specie di flusso unitario ed ininterrotto. L’immagine più calzante è quella di un oceano torbido ed oleoso, agitato da un attorcigliarsi di tentacoli sonori che affiorano in superficie sotto forma di violenti brandelli extreme-metal, urticanti sprazzi noise, delicati ricami free-jazz, atmosfere maestose ed angoscianti, pensose rarefazioni e tutto un brulicare di situazioni che spesso appartengono ad un territorio diverso da quello heavy tradizionale. Anzi, il contatto più evidente con le radici della band è rappresentato soltanto dalle sporadiche e disturbanti fasi vocali di Luciano Lorusso, a sostegno dei momenti d’impatto più feroce e devastante.
Questa è certamente un’opera per la mente, che si propone di stimolare nell’ascoltatore un caleidoscopio d’immagini legate al tumultuoso scorrimento sonoro, creare sensazioni di straniamento e disagio, stati d’animo pronti a mutare seguendo le contorsioni dell’album. Uno dei casi nei quali il giudizio è fortemente legato a fattori personali ed alla disponibilità del singolo ad immergersi con impegno in un lavoro dai contorni sfuggenti.
E’chiaro che gli Ephel Duath sono coraggiosi, intelligenti, tecnicamente preparati e molto ambiziosi. La loro intuizione di coniugare elementi jazz/fusion con pesanti strutture metalliche è, se non unica, certamente originale e brillante oltre che abilmente realizzata, inoltre i padovani con un’album dai temi così diversificati possono raggiungere varie tipologie di appassionati degli stili di confine.
Sull’altro piatto della bilancia occorre mettere il peso di un prodotto fortemente ermetico, non soltanto ad una prima lettura ma anche dopo avergli dedicato parecchio tempo, il fatto che malgrado la durata assai contenuta c’è ugualmente una tendenza alla dispersione, ed anche una sottile sensazione di distacco ed autocompiacimento intellettuale.
Comunque, a prescindere dal livello d’interesse e dall’intensità del rapporto che può scaturire nei confronti di un gruppo come gli Ephel Duath, va dato loro il grande merito di aver dimostrato che oggi la nostra scena heavy è in grado di imporre progetti autonomi e vincenti su scala internazionale, cosa certamente positiva.
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