Ci sono un italiano, due brasiliani e un inglese....no, non è l’inizio di una barzelletta vecchio stampo, ma si tratta semplicemente della nazionalità dei musicisti che compongono gli
Holy Tide, band internazionale che, con la pubblicazione di "
Aquila", fa registrare il proprio debutto discografico. La mente di questo progetto è il bassista, nostro connazionale
Joe Caputo, autore delle principali composizioni presenti all’interno dell’album, in cui compaiono anche i carioca
Gustavo Scaranelo alla chitarra e il singer
Fabio Caldeira, mentre la batteria è affidata al britannico
Michael Brush (già nei Magic Kingdom).
I nostri sono enormemente ambiziosi e lo si intuisce sin dalla opener
Creation-The Divine Design, si tratta della classica intro orchestrale che cattura l’attenzione dell’ascoltatore accrescendone il pathos e la curiosità di sapere cosa accadrà nelle successive tracce, secondo la tradizione più classica delle "Metal-Opera". In realtà, le enormi attese create, non sempre vengono soddisfatte positivamente e l’intero disco vive di momenti, talvolta interessanti, in cui le drammatiche orchestrazioni, le trame del progressive e le melodie del power metal convivono armonicamente, amalgamandosi alla perfezione tra loro, vedasi pezzi come
Exodus,
Chains Of Enoch, The
Crack Of Dawn,
Return From Babylon e
The Age Of Darkness, mentre in altri frangenti subentra la classica sensazione di “deja-vu”, ad esempio in tracce come
Godincidence, nella “cinematografica”
Curse And Ecstasy o in
Eagle Eye, dove i richiami ai vecchi Kamelot sono fin troppo evidenti (ovviamente con la debite proporzioni, soprattutto considerando che la voce di
Caldeira non ha certo la stessa intensità interpretativa del grande Roy Khan dei tempi d’oro), troviamo poi altri episodi alquanto anonimi, come
Sunk Into The Ground, che risultano scontati e non lasciano il segno.
Tuttavia, lo si è già detto, l’intero lavoro vive di luci ed ombre ed il disco ha comunque delle vere e proprie impennate di orgoglio, ne sono una valida testimonianza
Lord Of The Armies, con le sue spruzzate di thrash, ma anche
The Shepeherd’s Stone in cui compare come “special guest” addirittura il grande
Don Airey con le sue tastiere dal tipico effetto “Hammond”, mentre nella successiva
Lamentation l’ospite di turno è il singer tedesco
Tino Wollf, dedito a sonorità più gothic. Chiude il disco forse il pezzo migliore, ovvero
The Name Of Blasphemy, un brano graffiante, che rappresenta un perfetto connubio tra prog e power, con una sua identità ben definita, senza rifarsi in maniera esagerata ai grandi del passato, come invece accade per alcune precedenti songs.
In conclusione, da un lavoro cosi ambizioso era forse lecito attendersi un pò di più, soprattutto dal punto di vista dell’intensità che, a detta di chi scrive, è il vero punto debole del disco, per dirla in maniera grezza, manca il sentimento, che spesso è ciò che fa la differenza, anche i pezzi più riusciti, che comunque ci sono, e numericamente sono forse anche maggiori rispetto ai passi falsi, non incidono mai davvero come dovrebbero, comunque le potenzialità per far meglio in futuro ci sono tutte!