Secondo full-length per la formazione di Amburgo, Germania, che si era messa in evidenza dapprima con l’Ep “The goat ritual” (2014) e poi con l’esordio su lunga distanza “Scars & crosses” (2016, Svart Records).
Sludge, hardcore, extreme metal, death, doom, è davvero difficile etichettare il sound virulento e multi-sfaccettato degli
High Fighter, che triturano ogni tentativo di schematizzazione. C’è qualcosa che ricorda i primi Mastodon, ma in versione ancora più urticante e feroce. Tensione ed esplosività, cambi di riff e di tempi, groove ultrametal ed aggressività belluina, i nove brani del disco (altri due sono solo brevi interludi di quiete) esplorano tutte le sfumature della modernità heavy. Anche l’interpretazione vocale della sorprendente
Mona Miluski è capace di spaziare senza difficoltà da tonalità quasi alla Janis Joplin (la bombastica “
Kozel”) ad un growl delirante ed omicida (“
Before I disappear", "
Another cure", "
I will not”) rendendo l’ascolto quantomai stimolante. Troviamo anche un massiccio episodio psycho-sludge alla Intronaut (“
When we suffer”) dove la pesantezza heavy si alterna a passaggi rock-evocativi, una cavalcata vicina al classic/dramatic metal (“
A shrine”) ed una botta di groove grondante malvagità e adrenalina (“
Champain”), segno di ottima capacità di uscire dagli schemi e di freschezza creativa.
L’impatto strumentale è sempre violento, annichilente, ma ricco di variazioni; il songwriting è elaborato ma fruibile anche nei suoi aspetti più eccessivi; l’atmosfera è di una stretta mortale dentro acciaio incandescente.
Disco inadatto ai cuori teneri, ai delicati animi melodici, perché qui siamo di fronte alla versione più brutale e disturbante dell’heavy metal. Ma senza incollarsi addosso stereotipi vetusti e logori.
Quella degli
High Fighter è una prova da promuovere a pieni voti.
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