Continua il periodo d’attività piuttosto intensa per il grande vocalist Tony Martin, che ritroviamo, dopo il disco solista, la partecipazione alla saga Phenomena e quella nell’eccellente nuovo episodio del progetto del nostro Aldo Giuntini, anche in questo “The raven ride”, rilasciato sotto la denominazione Empire, un ennesimo esempio di formazione con le sembianze del supergruppo, fondata da Rolf Munkes (Majesty) e che qui si giova pure della perizia di Neil Murray (autentico veterano della scena, Whitesnake, Black Sabbath, Brian May Band, Gary Moore, tra le sue molteplici collaborazioni) e Andre Hilgers (Silent Force, Axxis).
La band non è in realtà una novità assoluta e, infatti, con la medesima soluzione professionale basata sulla ormai sempre più diffusa prassi delle “consulenze illustri”, ha già realizzato altri due dischetti (“Hypnotica” del 2001 e “Trading souls” del 2003) i quali, oltre alla presenza costante del fedele Murray, hanno visto Munkes supportato dal contributo in ordine sparso di Lance King (ex Balance of Power), Mark Boals (ex Malmsteen), Don Airey (non credo sia necessario dilungarsi sul curriculum dell’attuale tastierista dei Deep Purple), Anders Johansson (Hammerfall) e dello stesso Martin, confermato nel ruolo che gli compete dopo aver già concesso i favori della propria laringe alla fatica discografica precedente.
Con il consueto dubbio che si tratti di una comunione di “interessi” prima ancora che di “anime”, ci si appresta all’ascolto e mentre scorrono le note del Cd, la prima considerazione da fare è che la voce di Tony sembra indenne da qualunque fenomeno “inflazionistico”, conservando intatte tutte quelle caratteristiche tipiche della sua timbrica, che lo hanno reso uno dei più autorevoli e preparati eredi del migliore Ronnie James Dio.
L’ambito stilistico fondamentale di “The raven ride” è dunque ancora una volta quello di un hard ‘n’ heavy dagli orientamenti piuttosto tradizionali, con Black Sabbath, Rainbow e Deep Purple individuabili come prestigiose influenze primarie, purtroppo però, sebbene suonato in modo impeccabile (e non è una sorpresa vista la line-up), il disco stenta un po’ a prendere quota, appare leggermente “freddo” nel suo pur gradevole “aspetto esteriore”, manca, insomma, almeno alle mie orecchie, quell’impulso naturale e propositivo alla materia che, per esempio, aveva fatto la vera differenza nel recentemente pubblicato “III” del Giuntini Project.
La piacevole title-track, “Breathe”, potente e oscura, “Satanic curses”, bella nel suo piuttosto evidente approccio “Dio docet”, “Al sirat - The bridge to Paradise”, dove l’ispirazione assume i tratti di Rainbow e Purple, con qualche accenno alle indimenticabili fattezze dei Led Zeppelin, e ancora l’adescante profumo di zolfo emanato da “The devil speaks, the sinner cries”, in cui Rolf Munkes si cala nei panni di Toni Iommi, per un’attendibile “celebrazione” Sabbathiana a tutto tondo, rappresentano i picchi di quel tracciato del gradimento che, anche grazie ai timidi tentativi d’affrancamento dagli schemi base esibiti in “Carbon based lifeform” (lontani effetti elettronici e cori vaporosi s’intrecciano con risultati altalenanti) e “I can't trust myself” (rockeggiante e disinvolta), in bilanciamento con le anonime “What would I do?” (un momento soft senza infamia né lode) e “Changing world” (in qualche modo affine alla già citata “Carbon based lifeform”, ma con qualità inferiore) e soprattutto con la pessima forma “d’aggressione” rappresentata in “Maximum”, riesce a mantenersi su standard più che accettabili, ma con l’indicatore del particolare dispositivo che misura questo tipo di percezione in ogni caso piuttosto distante dalla sua “zona rossa”.
Complessivamente solo discreto, “The raven ride” conferma che in questo campo spesso non è sufficiente assemblare singole personalità di spicco per ottenere risultati eclatanti, che sovente lo “spirito” della squadra è più importante dei singoli giocatori o che quantomeno non si può prescindere dalla presenza di questo aspetto per emergere in modo sostanziale dal mare magnum della media delle uscite (tra l’altro oggi cresciuta sensibilmente di livello, se confrontata con quella di qualche anno fa), neanche quando si può contare su di uno “scintillante” organo della fonazione come quello posseduto da Mr. Martin.
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