Disquisendo, qualche tempo fa, su queste stesse pagine, della ristampa di “Scratch ’n’ sniff”, quarto album in studio dei danesi Fate, avevo espresso una certa “ansia” in merito alle voci di un ritorno in forma “inedita” di questa piccola istituzione dell’hard melodico europeo, più famosa forse per essere stato il primo mezzo espressivo di Hank Shermann dopo la fuga dai Mercyful Fate, in cerca di un ambiente artistico più “rilassato”, che non per innegabili meriti propri.
In quell’occasione avevo parlato della possibilità che il “fato” riservasse ancora delle sorprese, che non fosse ancora giunto il tempo del suo compimento finale, ed ecco che un nuovo atto di quel destino tutto meno che infame è ora finalmente pronto ad essere fagocitato dal fedele lettore Cd.
La prima cosa che immediatamente si può notare durante l’ascolto di “V” è che Tommy Hansen, voluto un’altra volta (era già accaduto nel summenzionato “Scratch ’n’ sniff”) in cabina di regia, ha svolto il suo compito al meglio, conferendo ai suoni del disco un’eccellente profondità, limpidezza e impatto “frontale”, e subito dopo questa considerazione, non si può non rilevare la sensazione pressante che i Fate siano tornati con l’intento di “non fare prigionieri”, senza accontentarsi di un ruolo a margine della scena, con un piglio poco adatto a quello della “vecchia gloria” che svogliatamente cerca di rastrellare qualche consenso sfruttando il suo nome celebre.
La formazione scandinava forte dei nuovi innesti (il solo Peter Steincke rappresenta l’elemento di continuità tra le varie incarnazioni del combo) e con la conferma del timbro volubile, oggi divenuto maggiormente arcigno, di Per Johansson (voce anche di “Scratch ’n’ sniff”, con il cognome Henriksen), si ripresenta nell’anno 2006, con grande convinzione e qualità, ripartendo proprio dalla “fisicità” dell’album precedente, convalidando e implementando con forza quell’hard grintoso ma allo stesso tempo melodico, che fa dei riffs catalizzanti e dei cori irresistibilmente avvincenti, la propria arma di “seduzione” principale e altresì ammantando il tutto con una “vivacità” compositiva e freschezza globale decisamente significativa, le quali appaiono davvero lontane da certe forme di conduzione con “pilota automatico” inserito, alle quali si è talvolta assistito in situazioni analoghe.
Apre le “danze” la cadenzata e diretta “Butterfly”, ottimo melange di tecnica, energia e intensità, seguita dalla strisciante e minacciosa “Heaven's crying too”, molto efficace nel suo chorus e nelle costruzioni vocali “doppiate” e da “Everything about you”, contraddistinta da una curiosa assonanza, nella linea armonica portante, con “Don't let me be misunderstood” (classico del blues, già portato al successo da Nina Simone, dagli Animals e dai ehm … Santa Esmeralda!), ma tuttavia complessivamente assai godibile e trascinante.
Qualche perplessità la desta “Ecstacy”, un tentativo d’incrocio tra hard rock e “modern soul” da classifica non perfettamente riuscito, mentre con “Nobody loves you the way I do”, le sinfoniche “Burned child” (dall’atmosfera nuovamente conturbante) e “I'll get by” (maggiormente vaporosa), l’estetica quasi “eroica” di “Life”, completate dalla buona verve di “Fate”, “Memories won't die” e “Toxic”, viene ristabilito il clima di piacevolezza e coinvolgimento solo momentaneamente (e parzialmente) interrotto.
E bravi Fate, ora speriamo che l’audience del terzo millennio, tra le mille “distrazioni”, sia disposta a darvi una chance, senza magari considerarvi più solamente l’ex gruppo di Shermann, ma una band ancora capace di dare molto a questo specifico genere musicale, proprio come “V” dimostra in maniera alquanto consistente.
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