Tutti sappiamo che la storia del rock è costellata di trionfali successi ma anche di avvenimenti tragici, episodi luttuosi che hanno significato la prematura scomparsa di alcuni suoi grandi protagonisti. Tra questi rimane indimenticabile la breve e fiammeggiante parabola di Tommy Bolin, a distanza di trent'anni ancora ben viva nel cuore degli appassionati più datati. Nato nel '51 a Sioux City, Iowa, il chitarrista Tommy Bolin è musicalmente un figlio degli anni '70, formatosi alla scuola di maestri del calibro di Hendrix, Clapton, Beck, Page, Blackmore e tanti altri. Ispirandosi a loro ma coltivando un tocco personale e ben riconoscibile, ancora minorenne Bolin diventa il leader di una propria band con la quale realizza un paio di albums più che discreti. Le sue impressionanti doti tecniche lo elevano in breve tempo al rango di giovane talento emergente della scena internazionale. Al principio dei seventies lo troviamo introdotto nei vertici del panorama rock grazie alla proficua collaborazione con il mostro sacro Billy Cobham, quindi successivamente con il suo ingresso nella James Gang. Ma la carriera in rapida ascesa di Bolin aveva in serbo un ulteriore memorabile passaggio: la sostituzione del mitico Ritchie Blackmore nei Deep Purple. Il chitarrista americano entra a far parte del gigante britannico nel 1975, giusto in tempo per mettere la sua impronta funkeggiante nell'album "Come taste the band", accolto però molto freddamente da critica e pubblico. In quel periodo esce anche "Teaser", forse il miglior lavoro solista di Bolin, che infatti viene apprezzato più in questa veste che come nuovo membro dei Purple. E' il momento di massima gloria per il musicista americano, purtroppo destinato ad essere di breve durata. Le cose cominciano a peggiorare verso la metà del '76, quando i Deep Purple in piena crisi annunciano il loro scioglimento e Bolin, con gravi problemi di tossicodipendenza, ritorna negli States. A settembre dello stesso anno si mette all'opera per un nuovo disco solista, ma la tragedia è imminente. Il 3 dicembre 1976, in un hotel di Miami, il venticinquenne Tommy Bolin viene ritrovato privo di vita a causa di un'overdose di droga ed alcolici. In occasione del trentennale della scomparsa, la Spv pubblica a sorpresa un corposo omaggio alla memoria dell'artista. L'antologia è nata dal recupero di registrazioni dell'epoca, contenenti sia alcuni brani inediti che le versioni alternative di tracce in seguito pubblicate, tutto poi logicamente adattato alle odierne esigenze di qualità sonora. Oltre un'ora di splendido rock, durante la quale possiamo ammirare la tecnica eccelsa ed il grande eclettismo di Bolin, che a differenza di tanti colleghi riusciva a spaziare con uguale bravura in stili e generi molto diversi tra loro. Nel disco tale capacità emerge con la massima chiarezza, perchè i brani possiedono una varietà di forma, sviluppo, impostazione, atmosfera, da lasciare veramente impressionati. Solo per rendere l'idea citiamo l'energia sensuale del funky-hard rock "Teaser", il dinamismo acido e pulsante di "Fandango" che bizzarramente ricorda un recente pezzo degli Atomic Bitchwax, l'incantevole dolcezza psichedelica di "Wild dogs", gli acrobatici virtuosismi jazz-rock in "Marching powder", ed ancora gli sconfinati escapismi "free" che alimentano strepitose jam-song come "Flyin' fingers" o "Just don't fall down". Oltre ai fans di Bolin e del rock settantiano, non si può non consigliare la raccolta ai patiti della chitarra, i quali potranno deliziarsi con i suoi aspetti strettamente strumentali. L'operazione della Spv, a differenza di altre simili, non mi ha assolutamente provocato sospetti di sfruttamento postumo. Anzi, oltre ad essere tempo di rendere il giusto tributo allo storico e sfortunato personaggio, sarebbe stato un vero peccato non poter godere di questo eccellente materiale. Una conferma della bravura di Bolin, che aumenta il rimpianto di non aver potuto vedere tutto il suo enorme potenziale esprimersi pienamente.
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