La fuoriuscita di Michael Kiske dagli Helloween fu uno degli avvenimenti più scontati e prevedibili della storia del metal: dopo aver tentato con notevole coraggio e ahimè, ben poco successo, strade artistiche distanti dal canonico power metal che avevano contribuito a fondare alla metà degli anni ottanta, il biondocrinito singer fu immolato come capro espiatorio nella condanna di un nuovo corso in tutta la band, senza eccezione alcuna, aveva fermamente creduto per un paio di anni.
Tornati precipitosamente all’ovile con due eccellenti lavori quali “Master of the rings” e “Time of the oath”, gli Helloween sembrarono dimenticarsi piuttosto in fretta di Michael Kiske, che a metà 1996 faceva uscire quasi in sordina questo “Instant clarity”, pubblicato a suo tempo dalla Raw Power (la stessa label che licenziò il primo lavoro di Weikath e soci con Andi Deris) e oggi gentilmente ristampato dalla sempre più attiva Frontiers Records.
E la pubblicazione di questa ristampa rappresenta per il sottoscritto un’occasione per aprire l’album dei ricordi: dieci anni fa affrontavo l’ultimo anno delle scuole superiori (e chi se ne frega, direte giustamente voi) e Michael Kiske era per me ben più di un punto di riferimento musicale. Sentirlo cantare, non importa se da solo o all’interno di una band, era la cosa più importante, prima ancora di qualsiasi giudizio potessi dare sulla qualità della musica da lui proposta. “Istant clarity” significò per me semplicemente un nuovo album con la voce di Michael Kiske, e risentirlo adesso, dieci anni dopo, a mente lucida, e con tutta l’acqua passata sotto i ponti, fa davvero un bell’effetto…
Una cosa è certa: questo è stato il disco che ha chiarito in maniera definitiva, se ancora ce ne fosse stato bisogno, che al buon Michael il metal non interessava più. “Chameleon” e “Pink bubbles go ape” avrebbero potuto essere incidenti di percorso per Michael Weikath, per Markus Grosskopf, ma per lui no, perché lui in questa strada ci credeva veramente, quando cantava cose tipo “Longing” o “In the night”…
“Be true to yourself”, con il suo groove ipnotico e cadenzato, “The calling”, con il suo incedere irresistibile, “Somebody somewhere”, con la melodia malinconica del ritornello, sono tutti episodi che sarebbero potuti comodamente uscire da uno dei due dischi sopraccitati, e nessuno se ne sarebbe accorto. La stessa cosa vale per le restanti otto tracce di un album che rappresenta soprattutto una dichiarazione di coerenza, di un album certamente lontano dalla minimalità acustica e a tratti spocchiosamente snob del suo ultimo prodotto in studio (vedi mia recensione del mese scorso), di un album ancora parzialmente accessibile e apprezzabile dai metallari più ortodossi, per il suono delle chitarre che tanto leggerino non è, e per la presenza in veste di ospiti di due personaggi non esattamente di secondo piano come Kai Hansen e Adrian Smith (quest’ultimo stava facendo la fame, ancora lontano dalla reunion con gli Iron Maiden), che firmano insieme la bella “New Horizons”, un brano che all’epoca forse fece voglia di ammazzare il vitello grasso in onore del figliol prodigo, ma che a risentirla oggi suona nulla più di un buon pezzo hard rock, oltretutto decisamente lontano dalle genialità compositive di mr. Smith.
Un disco, in conclusione, da comprare e da andarsi a riscoprire, non fosse altro per ribadire una volta per tutte quale sia tutt’ora la voce migliore dell’intero panorama heavy metal (la prova di Michael dietro al microfono è come sempre divina). Per me, che nonostante tutto rimango un cuore tenero, gli episodi migliori si chiamano “Always” e “Do I remember a life?”, due ballad capolavoro come davvero poche ne ho sentite in questi dieci anni, intense e commoventi anche dal punto di vista lirico (“Always” è uno struggente addio ad Ingo Schwichtenberg, che era scomparso un paio di anni prima): risentirle nel mio stereo in questi giorni mi ha dato una bella dose di pelle d’oca, non c’è alcun dubbio…
Arricchisce questa ristampa, rendendola appetibile anche per chi possedesse già l’introvabile originale, la presenza di quattro brani in più, la cui provenienza francamente mi è ignota (bonus tracks giapponesi? Inediti demo in studio?) ma che sono decisamente validi, pur se fuori contesto rispetto al tema portante dell’album. A sentirle bene, con il loro feeling acustico e certe linee vocali, sembrano un po’ le prove generali del suo terzo disco solista, ma non vedo perché dovremmo dispiacercene: dopo tutto Michael Kiske ha ampiamente dimostrato di essere perennemente in cammino.
Sappiate che questo mese avete qualcosa per cui spendere i vostri soldi…
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