In un “momento storico” in cui i casi di “ritorno” discografico sono divenuti praticamente all’ordine del giorno, ecco riapparire anche i dutch rockers Vengeance.
Non vuole esserci nessuna vena polemica in quest’introduzione, anche perché mediamente il livello qualitativo di tali rientri è di solito piuttosto elevato, ma, d’altro canto, è necessario rilevare, dal punto di vista di un’analisi generale, che questo tipo di pratica ormai assai diffusa, credo limiti, in qualche maniera, le possibilità d’emersione dei gruppi “nuovi”, che poco possono fare nei confronti della forza attrattiva che un bel nome “celebre” inevitabilmente porta con sé; un “problema” che probabilmente si potrebbe risolvere con un pizzico di maggiore equilibrio, proporzione e “coraggio” nelle valutazioni dell’industria del disco.
Tornando ai protagonisti di questa disamina, ho sempre considerato i Vengeance come degli onesti interpreti dell’hard ‘n’ heavy europeo, capaci di raggiungere il loro apice creativo con il valido “Arabia”, un incrocio tra robusto class metal e tradizione hard rock, abbastanza “citazionista” e tuttavia parecchio gradevole.
La pressoché medesima sensazione l’ho provata durante l’ascolto di questo “Back in the ring”, un buon lavoro denso di vivide memorie ottantiane, dove i “luoghi comuni” vengono percorsi con discreta brillantezza e cognizione di causa.
Il sound appare, così, vivace, sanguigno, corposo e al suo interno si possono riscontare AC/DC (parecchio!), i Def Leppard più rustici e pure qualcosa dei sovrani del metallo di classe Dokken, istigati a turno da un gruppo di musicisti (tra membri storici, nuovi elementi e ospiti vari, con Michael Voss, Mat Sinner e il fondatore Arjen Lucassen, nel ruolo di “very special guests”) affiatati e molto abili nel conoscere e sfruttare quei “segreti” che rendono particolarmente “contagioso” questo genere musicale.
Pur privo di un particolare spessore compositivo, il platter è divertente e coinvolgente, e dà il meglio di sé stesso negli omaggi hard ‘n’ boogie ‘n’ roll, spesso di marca “australiana”, offerti nella title-track, in “No mercy”, in “Bad attitude”, nella “cinguettante” “Cowboy song” e in “Rip it off”, ma anche nei brani in cui il timbro tagliente ed arcigno Leon Goewie riduce un po’ la sua asprezza e le partiture acquisiscono un superiore tocco melodico (pur senza trascurare la componente fisica), assumendo la denominazione di “Holy water”, “Mind over matter” e “Had enough”, i nostri danno prova di disinvoltura e sapienza.
Le stesse che ritroviamo nella vibrante “Captain Moonlight” e in “Now and then” (pare ci sia lo zampino del grande Paul Sabu nella stesura delle canzoni), in cui la melodia prende il sopravvento, con rifrazioni di fulgore “sintetico” tipicamente eighties.
Dopo qualche secondo di silenzio tocca ad “Evelyn”, una breve delicatezza “sentimentale”, con un Goewie completamente trasfigurato dal trasporto romantico, concludere un albo schietto, diretto, alla fine alquanto soddisfacente nella sua spigliatezza, anche se, come avrete già capito, per quanto riguarda il sottoscritto, non proprio irrinunciabile.
Non ci resta che stare a vedere come il mercato accoglierà questi aspetti e se saranno sufficienti per consumare l’ennesima “vendetta” olandese …
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