Correva l’anno 1995 e un gruppo di sconosciuti americani conglobati sotto la denominazione Caught In The Act partoriva un autentico capolavoro di hard rock sontuoso, pieno di melodie sublimi che lottavano strenuamente con adattamenti muscolari e lievi intarsi d’estrazione progressiva: il titolo di tale meraviglia era “Relapse of reason” e gli artefici di questo suono avvincente si chiamavano Danny Martinez, Joe Marone, Antony Trujillo e Troy Benson, assistiti dalla penna di Stan Bush e Bobby Barth (ricordiamo anche le due le cover dei suoi Axe qui presenti), con quest’ultimo responsabile pure di una scintillante produzione.
Con una diversa sezione ritmica i CITA danno alle stampe l’ottimo “Heat of emotion”, e, una volta diventati Guild Of Ages a causa di questioni legali d’omonimia, proseguono nella loro parabola discografica con “One”, “Vox dominatas” e “Citadel”, per poi sciogliersi definitivamente intorno al 2002.
Ma si sa, la passione per la musica quando è così forte diventa una “patologia” difficile da tenere sotto controllo e il ricordo di un affiatamento e di una comunione d’intenti così armonica e magica (benché forse irripetibile) fa nuovamente avvicinare Danny, Joe e suo fratello Rob (il quale nella bio è accreditato come membro fondatore dei CITA, ma che nelle note del disco d’esordio appare solo come co-autore di alcuni brani …), i quali manifestano una pressoché inevitabile “ricaduta” e danno vita ad un nuovo progetto comune dal nome Relapsed, aiutati nell’impresa da Brian Mesa, già sostituto di Trujillo nell’ultima incarnazione dei GOA e membro dei Wish Doctor.
Il risultato della ripristinata collaborazione è “Into a former state”, un disco sulla cui cover i nostri protagonisti appaiono come i componenti di un gruppo di metal “moderno” (se non addirittura hip-hop/crossover) e che mi accingo a consegnare alle cure del fidato lettore Cd con una certa apprensione.
Ansia che scompare per incanto non appena le note del refrain di “Welcome to my life” si diffondono nell’etere e da qui in avanti, nonostante talvolta sia riscontrabile (come accade del resto dell’opener stessa) un comunque non disprezzabile tocco “attualizzato” è impossibile non riconoscere anche nei Relapsed quella classe sopraffina nelle costruzioni melodiche e negli arrangiamenti vocali così copiosamente elargita nelle precedenti esperienze del nostro four-pieces statunitense.
La voce di Martinez è ancora una volta calda, adeguatamente roca, molto allettante e “giusta” per un gruppo che consegna al melodic hard rock le proprie velleità artistiche e tutto il combo al gran completo, grazie anche ad eccellenti qualità “traenti” nel songwriting, piazza alcuni colpi piuttosto mirati allo scopo di impressionare i vecchi fans e, in generale, un po’ tutti sostenitori del settore.
L’arrembante “End of the line”, la risoluta ed ombrosa “Undone”, l’andamento adescante di “The other side” e (con una minore efficacia) di “Somewhere we belong”, il tipico imprinting ricco d’impatto melodico trasmesso da “Mercy pays the debt”, la magniloquenza corale di retaggio seventies di “All in all” o ancora l’hard rock roccioso e forbito di “Generation”, sono, infatti, situazioni capaci di esprimere un’estetica di valore, priva di difetti formali, la cui resa viene purtroppo soffocata da una produzione non completamente all’altezza e carente sotto i profili dinamicità, equilibrio e pulizia.
Sono fortemente persuaso, poi, sebbene non comprenda completamente una scelta di questo tipo, che il buon Freddy Mercury, ovunque sia il suo punto d’osservazione “privilegiato”, non potrà che apprezzare la versione di “I want it all” con la quale i Relapsed rendono omaggio ai suoi Queen, immaginando, inoltre, che una tale rilettura possa essere sicuramente più gradita che non la pantomima dal forte olezzo di cartamoneta che ha visto parte dei suoi vecchi compagni realizzare un tour e relativo Cd/Dvd con il supporto di Paul Rodgers (resta sempre uno dei miei cantanti preferiti ma questa “marchetta” non l’ho proprio digerita!).
“Into a former state” è ancora alquanto lontano dai livelli di “Relapse of reason” (laddove, di contro, ha probabilmente qualcosa in più a livello di alcune canzoni del già menzionato “Citadel”, a mio parere abbastanza deludente), ma i sintomi di quella gradevole “febbre” ricominciano a presentarsi e svilupparsi con discreta floridezza … essere recidivi in questo particolare campo non è affatto un difetto e non ci resta che attendere con fiducia il prossimo passo dei quattro del Colorado, sperando che non facciano nulla per far “regredire” una delle pochissime “malattie” piacevoli esistenti in natura.
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