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Mortland si sono formati nel 2017 con l'intenzione di essere una cover rock band per puro divertimento, ma ben presto il progetto ha preso una direzione molto più seria e proattiva. Infatti il gruppo di Nottingham non è composto da volenterosi dilettanti, bensì da maturi professionisti del settore hard rock. Il cantante
Matt Moreton ed il chitarrista
Andy Shortland in passato hanno collaborato con gli storici Cloven Hoof e con il progetto Tom Galley's Phenomena, ed anche gli altri componenti vantano una solida esperienza alle spalle (Evil Scarecrow, Tower). Adesso esce il loro primo album "
Devil may care", un concentrato di HR ultraclassico con appena una spruzzata di NWOBHM.
Io apprezzo chi le cose le fa bene e con passione, anche se queste cose non portano in sè il timbro della genialità o dell'originalità. Questo è il caso dei
Mortland, che ci offrono un buon disco di rock duro "straight in your face" alla vecchia maniera, grintoso e tirato, energetico e memorizzabile, suonato in maniera perfetta e pieno di brani incisivi. Però sono canzoni che ci ricordano altre band del passato, che hanno un retrogusto di già sentito? Assolutamente sì. Ma, alla fine, chi se ne frega. La musica scorre bene, trasmette calore, scuote il corpo e l'anima, invita a riascoltarla dall'inizio? Allora il senso del rock è già tutto lì. Il resto sono menate intellettualoidi automasturbatorie.
Quindi godiamoci una "
Light the fuse" col suo mid-tempo battente ed un ritornello alla Ronnie James Dio, con i suoi bei assoli limpidi ed affilati. Il tiro solido e graffiante di "
Too close to the sun", l'insinuante e radiofonica "
Dirty egos" (Foo Fighter?), la scattante e metallica "T
he only one", l'orecchiabile e spigolosa "
God in the machine" (Queens of the Stone Age?) o la lunga ed elaborata "
Hope returns" che inizia con attitudine romantica per trasformarsi poi in un brillante rock d'atmosfera ed infine in un assalto chitarristico all'arma bianca. Lasciamo che il buon vecchio hard rock fluisca, grazie alla gran voce di
Moreton, ai solismi di
Shortland e
Buckley, alle ritmiche precise di
Watson e
Spencer. Il quintetto inglese ci mette l'esperienza, il mestiere ed una certa freschezza nel songwriting, non sorprendente ma nemmeno calligrafico.
Album piacevole, tosto, consigliato ai cultori dell'hard'n'heavy di buona fattura.
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