Ricordavo con piacere “
Robbed in paradise”, il debutto sulla lunga distanza dei
Saints Trade e, memore di quanto accaduto con gli Alchemy, ero molto curioso di verificare se “l’effetto”
Burning Minds Music Group avrebbe contribuito anche in questo caso alla crescita esponenziale di un gruppo già parecchio promettente.
L’ascolto di “
Time to be heroes” rivela effettivamente un incremento nella maturità espressiva, nella brillantezza compositiva e nella compattezza esecutiva (la formazione nel frattempo ha subito alcune defezioni e rimaneggiamenti, attestandosi su un trio che per il disco si avvale di alcuni prestigiosi ospiti), ma questa volta la rampa di “salita” è stata meno repentina e vertiginosa, se confrontata con quella che ha portato “
Dyadic” dritto nella mia personale
top-playlist annuale.
All’albo in questione non si può in realtà imputare nessuna importante carenza “specifica”: i pezzi sono scritti bene e interpretati con vitalità da un abile
Santi Libra, così come piace il modo in cui la band tratta la materia melodica, e cioè con sensibilità e vigore, aggiungendo all’impasto sonico barlumi di
hard-rock classico ed enfatico (ricordando, a volte, qualcosa dei Ten).
In tale apprezzabile situazione, tuttavia, l’impressione è che a mancare sia appena un pizzico di decisivo
grip emozionale, non sempre distribuito in maniera costante lungo i cinquantaquattro minuti di durata dell’opera.
Per intenderci, se tutti i brani avessero avuto goduto della tensione emotiva concessa all’avvolgente “
Two as one”, alle evocative "
Hills of Sarajevo” e “
Middle of nowhere” o ancora alla cromata magniloquenza di "
Twist in the tail”, il giudizio complessivo sarebbe stato anche più lusinghiero ed entusiasta, mentre altrove non tutto sembra perfettamente attrezzato per “colpire” a fondo i sensi, che così rimangono solo infatuati di fronte alla gradevole spensieratezza di “
Livin' to rock”, al pimpante tocco mitteleuropeo di “
Night children” e al ruffiano
appeal anthemico di “
Destiny”.
La grinta di “
Higher” e “
The rose” e l’invitante urgenza di “
Queen of love” e “
Born hunter (Not the prey)” rappresentano altri passaggi intriganti del programma, capaci di sfruttare con un certo buongusto modalità operative collaudate e consolidate.
Un bel
passo in avanti, insomma, che però non è ancora il
balzo necessario a garantire ai
Saints Trade l’ingresso trionfale in quel
gotha del
rock melodico a cui, per mezzi e attitudine, possono certamente ambire.
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