Ho letto
Dead Kosmonaut e sul momento ho immaginato che mi stavo per invischiare in qualcosa di astruso, fin troppo sperimentale o addirittura in un'accozzaglia di sonorità e disparate influenze, un timore che si è rafforzato nello scoprire in formazione il cantante
Pelle Gustafsson, frontman, tra gli altri, della Black Metal band Nifelheim (dove aggredisce il microfono come Hellbutcher), e con lui un lotto di musicisti, tutti con diverse esperienze alle spalle, e tra questi il bassista
Mattias Reinholdsson, fondatore del gruppo.
Detto questo, è bastato l'ascolto dell'opener "
Black Tongue Tar" per capire di essere completamente fuori strada.
Infatti, nei quasi cinquanta minuti del disco, ci si ritrova immersi in suoni liquidi e atmosferici, che galleggiano su fondamenta comunque erette su di un sontuoso Hard & Heavy Metal, e che, come nel caso della delicata "
Hell – Heaven", lasciano il segno, con un caldo feeling tra il Prog Rock, i primi Judas Priest, i Savatage e gli Evergrey più articolati o i Candlemass meno doomeggianti. Non mancano un tocco di Ronnie James Dio ("
Vanitatis Profeta"), una modica quantità di Iron Maiden (come su "
The Spirit Divide") per lo più in qualche melodia e passaggio vocale di
Pelle Gustafsson, e tanta - ma tanta - qualità nel guitarwork e un cantato - ripeto - davvero sorprendente.
I tredici minuti finali dell’album sono appannaggio del brano che porta lo stesso nome del gruppo, diviso in due sezioni, la prima corale a fare da introduzione alla monumentale seconda parte, con quel senso di sospensione e raccoglimento che solo i grandi gruppi (su tutti i Pink Floyd) sanno creare.
I
Dead Kosmonaut non sembrano una band messa su in piedi giusto per ricalcare l'onda del facile revival, visto che hanno già un album ("Expect Nothing" del 2017) alle spalle e la loro prima incarnazione, come Astrakaan, risale al 2005, ma soprattutto perché quello che fanno lo fanno bene. Molto bene.
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