“
I Torchia prendono ispirazione da una moltitudine di sottogeneri metal e la loro missione è quella di rivitalizzare il genere del death metal melodico, introducendovi un senso di pericolo e imprevedibilità”.
Ecco, no.
Non scopriamo certo oggi che
bio e dichiarazioni sugli
album in uscita possano risultare fuorvianti; in questo caso, tuttavia, si lambiscono i confini della mistificazione.
Già, perché i
Torchia, almeno per chi scrive, sono bravi: suonano alla grande senza eccedere in tecnicismi, possiedono gusto per armonie e
guitar solos, si fregiano di un
songwriting sapiente in cui aggressione, velocità, potenza e melodia convivono e si alternano.
Insomma, tutto ciò che ha reso grandi le
band melodeath finniche.
Nelle pieghe dei pregi, d’altro canto, si annidano spesso i difetti: in “
The Coven” ogni aspetto è sì formalmente inattaccabile, ma non si rinviene pressoché alcuna volontà di discostarsi dai canoni compositivi varati e perfezionati da
Omnium Gatherum,
Norther,
Insomnium e compagnia.
L’effetto
déjà vu è in agguato ad ogni stacco, ad ogni intreccio chitarristico, ad ogni linea vocale interpretata dal pur efficace
Edward Torchia, ed alla lunga una tale prevedibilità finisce per pesare.
Purtroppo, i risultati si fanno meno positivi allorquando si gioca (timidamente) la carta della modernità e del
groove -sì, “
Lord of Dreams (Cult March)”: ce l’ho con te-, ragion per cui presumo sia comunque meglio mantenersi nel solco della gloriosa tradizione della terra dei mille laghi… pur consci che, ad oggi, le vette lambite da gemme del calibro di “
Shadows of The Dying Sun” o “
Beyond” non siano ancora state raggiunte.
In ogni caso complimenti, cari
Torchia: non prenderete ispirazione da una moltitudine di sottogeneri
metal e non introdurrete chissà quale senso di pericolo e imprevedibilità nel
death melodico, ma chi ama il genere dovrebbe senz’altro accordare una
chance al vostro “
The Coven”.
Promossi, anche se avete scopiazzato un po’.
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