Gli
Havok fanno parte di quella schiera di band revival Thrash Metal, che ovviamente non saranno mai i nuovi
Slayer o
Megadeth, che però cercano di portare il verbo alle generazioni che non hanno vissuto gli anni d’oro. Cosa che riescono a fare in maniera dignitosa, restando sì ancorati alla potenza e alla dirompenza del thrash, ma essendo in grado di modernizzare il sound. Insieme a
Warbringer,
Gama Bomb,
Municipal Waste e
Dr. Living Dead, questi ultimi due incarnando più la vena “core” del thrash, gli
Havok portano da poco più di 10 anni un thrash metal che, sin dallo stupendo debutto “
Burn” del 2009, non hanno praticamente mai sbagliato.
Come in tutti i dischi (dal 2013 in poi) degli
Havok, “
V” non fa eccezione, troviamo un nuovo bassista, questa è la volta di
Brandon Bruce. Sicuramente Bruce non fa rimpiangere il vecchio bassista,
Nick Schendzielos: anzi, fa risaltare ancora di più il proprio ruolo. D’altronde nella musica degli
Havok il basso è sempre stato uno strumento principale, di vitale importanza, tra assoli dedicati e leak ipnotici molto personali.
Con una chiara citazione alla intro di “
Blackened”, si apre “
Post-Truth Era”, e con lei il quinto album di questo (altro) scatenato quartetto americano. “
Post-Truth Era” è un gradevole mid-tempo che riprende il discorso lasciato in sospeso con “
Conformicide”, ormai 3 anni fa. In verità la opener non è la sola canzone ad essere su velocità moderate, anzi, molte canzoni, soprattutto tra le prime, faticano ad esplodere in un quantitativo di bmp tali da rendere il brano uno schiacciasassi.
David Sanchez continua ad allietarci con la sua voce gracchiante e sgraziata, in quesiti sterminati mid-tempos. Che non ci abbandoneranno mai.
Finalmente, dopo un breve intermezzo, arriviamo a sentire sul nostro corpo una serie di mazzate, e la prima di queste è “
Phantom Force”. Anche le seguente “
Cosmetic Surgery” ci riporta a un sound più "threshettone", più cazzuto, rispetto al “lato A” di “
V”.
Ed è proprio vero. “
Dab Stog”, l’intermezzo citato prima, è veramente uno spartiacque, tra una prima parte del disco più lenta e cadenzata, e una seconda più veloce ed efferata, che si va a concludere con la bellissima ed eterogenea “
Don’t Do It”. 8 minuti in cui si alternano mazzate e momenti più lenti e ragionati, che lasciano spazio a grandiosi assoli di
Reece Scruggs, sempre belli e funzionali, non solo a questo ma a tutti i brani dell’album.
In conclusione, “
V” è un album più che valido, soprattutto la seconda parte, qualche ascolto lo merita.
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