Comunque la vogliate mettere, sarebbe ingeneroso, oltre che fazioso, non inserire
Magnus Pelander tra i principali artefici del rilancio su vasta scala dell’
hard-rock settantiano, capace, grazie a cultura e sensibilità inusitate, di arrivare addirittura, in qualche modo, a influenzare un luminare del settore come
Lee Dorrian.
Il suo lavoro con i Norrsken prima, e con i
Witchcraft poi, ha generato un processo di emulazione (più o meno virtuoso …) degno dei grandi “condottieri” e se il recupero di una certa tradizione del
rock n’ roll (comprendente elementi
doom,
psych e
folk, …) non sembra tuttora subire flessioni, è sicuramente anche merito (o “colpa”, a seconda dei punti di vista …) suo.
Ora, alla luce delle ultime prove del nostro, sono stati in parecchi ad accusarlo di stallo creativo e di egocentrismo e a supportare quest’ultima tesi arriva, dopo le due incisioni da solista, anche la notizia che i
Witchcraft sono diventati esclusivamente una sua “creatura”.
A “complicare” ulteriormente le cose, con il titolo enigmatico di “
Black metal”, il sesto album della “
band” si rivela un’opera completamente acustica, che riprende proprio le atmosfere dolenti e dilatate di “
A sinner’s child” e “
Time” e le spoglia ulteriormente, rendendole ancora più scarne ed essenziali.
Concentrandola nell’estrema sintesi espressiva di una chitarra e di una voce,
Pelander mette in pratica l’ammirazione per
Roky Erickson,
Nick Drake,
Neil Young e
Jeff Buckley, impegnandosi in un’impresa davvero ardua, riuscire a emozionare evitando di alzare il volume, consegnandosi al proprio pubblico in assoluta “purezza”, senza nascondersi dietro fronzoli e artifici.
La difficoltà di arrivare al cuore dei
rockofili solo con le parole, l’interpretazione e con pochissime note è elevatissima, e se escludiamo la “sorpresa” di chi si aspettava qualcosa di maggiormente elettrico, mi sento di affermare che i trentatré minuti del programma colpiscono abbastanza efficacemente nel segno, in virtù di una poetica dilaniante e struggente.
La predisposizione a questi suoni è ovviamente indispensabile, e solo così si potrà apprezzare il travaglio interiore che alimenta “
Elegantly expressed depression”, la torpida malinconia di “
A boy and a girl” o la minimale desolazione di “
Sad people”, una sorta di
carillon grondante di un profondo senso di amarezza e d’ineluttabile caducità delle cose umane.
“
Grow” aggiunge tenebrose vibrazioni
sixties (con qualcosa dei Jefferson Airplane) al sofferto clima sonoro, mentre “
Free country” lambisce i toni epici di certe ballate bucoliche e “
Sad dog” sconfina solo per un attimo in territori leggermente più variegati, interrompendo, con l’eco di un piano, l’egemonia chitarra / voce.
Con l’arpeggio indolente e inquieto di “
Take him away” si conclude un ascolto che intriga e desta comunque anche talune perplessità, affacciandosi “pericolosamente” sul baratro nell’autoreferenzialità.
Non è facile prevedere come “
Black metal” sarà accolto dagli estimatori dei
Witchcraft … tra chi lo considererà l’atto coraggioso di un musicista libero e istintivo e quelli per cui invece sarà la testimonianza di una vanagloria ormai irrecuperabile, preferisco definirlo un viaggio cupo, lapidario e tutto sommato fascinoso nel dramma "esistenziale" di un artista che forse, per coerenza, avrebbe fatto meglio a evitare l’uso del “glorioso”
monicker e riservare tali suggestioni alla sua carriera individuale.