Quando mi è stata affidata l’analisi di questo “Time to take a stand”, il primo pensiero è corso a “Freak out!”, l’eccellente esordio solista del singer romano Chris Catena.
Il chitarrista Matt Filippini, mastermind del progetto in questione, è, infatti, proprio come Catena, un altro straordinario musicista italiano in sostanza sconosciuto ai più che sceglie, per la sua esibizione artistica, di circondarsi di una considerevole quantità di mostri sacri, prelevati direttamente della scena internazionale del rock duro.
Scoprire, poi, approfondendo la questione, che il buon Chris ha collaborato egli stesso al Moonstone Project, sia in maniera diretta (occupandosi di alcune vocals in “On the way to moonstone” e partecipando alla stesura di taluni brani), sia indiretta (fornendo all’amico Matt, a quanto sembra, l’accesso alla sua preziosa “agendina” colma di contatti eccellenti), non fa che rafforzare l’impressione di un’analogia d’intenzioni, confermata in modo assoluto alla prova dell’ascolto.
Anche in questo Cd troverete una strepitosa collezione di numeri d’alta scuola sfoggiati lungo i sentieri del seventies hard rock più autentico, eseguito con un ardore e una passione che vanno ben oltre il mero esercizio di stile di stampo revivalistico.
E’ chiaro che poter contare sulle voci di Kelly Keeling, Graham Bonnet, Glenn Hughes, James Christian, Steve Walsh, Paul Shortino ed Eric Bloom o sulle capacità strumentali di Howie Simon, Ian Paice, Carmine Appice e Daniel Flores, non può che rappresentare un grande sostegno, ma anche divenire la classica arma a doppio taglio, se poi la loro prova si riducesse ad un “compitino” privo di calore.
E invece i solchi trasudano di una materia affine a quella che fuoriusciva dai dischi di Deep Purple, Whitesnake, Bad Company, Rainbow, Led Zeppelin e suonano “veri” anche dal punto di vista di una riproduzione sonora che si adegua al feeling esibito dalla musica in una sintesi emotiva davvero sorprendente ed appagante.
Non c’è dubbio che qualche anno fa un lavoro del genere sarebbe stato impensabile e che anche con l’aiuto della tecnologia oggi a nostra disposizione, è presumibile che il suo costo di realizzazione piuttosto elevato non rappresenti una soluzione alla portata di tutti, ma alla fine ciò che si presenta alle nostre orecchie è un dischetto favoloso, vitale e coinvolgente, pilotato e voluto da un chitarrista che pur senza interpretare il ruolo d’incredibile virtuoso delle sei corde (nonostante una tecnica comunque di tutto rispetto), sa come farle vibrare nel modo giusto e come scrivere belle canzoni che toccano l’anima degli appassionati del settore.
Lo spessore delle composizioni è uniformemente assai elevato e il torrido hard-blues denominato “Slave of time”, interpretato con adeguato trasporto da un ottimo Kelly Keeling, lascia il posto ad una “Not dead yet”, sebbene un po’ prevedibile, praticamente perfetta come scenografia per il sempre emozionante Graham Bonnet.
Semplicemente irresistibili appaiono “Rose in hell” e “Where do you hide the blues you've got”, dove il “Drums Master” Ian Paice e “The Voice of Rock” Glenn Hughes, riuniti sotto lo stesso tetto (si fa per dire!) per la prima volta dai tempi dei Purple, danno un saggio della loro classe smisurata, splendidamente supportati da un grande Matt, così come il trascinante funk-soul elettrico di “Beggar of love”, marchiato dalla policroma vocalità di James Christian, procura importanti scosse d’adrenalina.
“City of Listes”, con Steve Walsh all’amministrazione del microfono, unisce magistralmente risolutezza e sentimento, mentre l’immenso Paul Shortino illumina con il suo timbro virile la torbida “Pictures of my lonely days” e le pulsazioni finali emesse da “On the way to moonstone”, vedono Eric Bloom al timone di una navicella che percorre traiettorie melodicamente intriganti, condite da velleità orchestrali degne dell’enfasi del glorioso Dirigibile.
Menzione d’onore anche per Enrico S. Madidini, il valente interprete vocale della rilettura di “Fire & water” dei Free, per Gianluca Tagliavini all’hammond, Nik Mazzucconi al basso e Alex Mori alla batteria, tutti eccellenti discepoli dei loro più famosi colleghi, in grado di non sfigurare di fronte a cotanta eccellenza.
Qualcuno lo bollerà, con un pizzico d’invidia o magari senza neanche ascoltarlo, come il solito disco pieno di glorie più o meno “vecchie” usate come specchietto per le allodole e attente solo a rimpinguare il loro portafoglio con una disimpegnata “marchetta” … per il sottoscritto “Time to take a stand” è un formidabile saggio di classe cristallina, capace di rammentare in maniera molto vivida i tempi in cui il rock era suonato prima di tutto con il cuore, un “attributo” il cui utilizzo non perde mai di attualità.