Trionfo o agonia? Mai titolo fu più profetico: è esattamente il dubbio col quale mi sono avvicinato alla nuova opera dei
Rhapsody (of Fire, monicker modificato per inconciliabili divergenze di copyright), ben consapevole delle numerose accuse di “immobilismo musicale” mosse alla band triestina nel corso degli anni.
Personalmente non ho mai trovato due dischi dei Rhapsody davvero identici. Turilli e Staropoli sono sempre stati abilissimi nel caratterizzare ogni uscita in maniera particolare: l'irruenza per “Dawn of Victory”, l'epicità per “Power of the Dragonflame”, la fortissima componente sinfonica ed orchestrale per la seconda parte di “Symphony of Enchanted Lands”. D'altro canto non si può certo sostenere che lo stile dei Rhapsody si sia modificato più di tanto nel corso degli anni, ma il gruppo ha dimostrato di essere il leader indiscusso del suo genere musicale, esprimendo una qualità semplicemente inavvicinabile per tutte le band che hanno tentato di seguire le stesse orme, e le vendite hanno sempre confermato la bontà delle scelte dei Rhapsody. Squadra che vince non si cambia.
Sono bastati pochi ascolti di “Triumph or Agony” perché ogni dubbio venisse letteralmente spazzato via: il sesto studio album dei Rhapsody è davvero un signor disco, coinvolgente ed orecchiabile, privo dei passaggi a vuoto che avevano parzialmente rovinato la riuscita del precedente studio album. I cinque musicisti europei hanno fatto tesoro dell'esperienza live conseguita negli ultimi anni, rendendosi conto che brani troppo veloci ed aggressivi rendono poco sul palco, perché la batteria copre buona parte del suono. Ed è proprio per questo motivo che “Triumph or Agony” segna un leggero “rallentamento” nel sound della band, che si mantiene arrembante e dinamico soltanto nelle prime canzoni (è il caso della title-track, classico brano d'apertura di grande impatto, e dell'incalzante “Heart of the Darklands”), prima di lasciare spazio alla raffinatezza di “Old Age of Wonders” e alle due mid-tempo che la band ha composto specificatamente per essere suonate dal vivo, “The Myth of the Holy Sword” e “Bloody Red Dungeons”. Delude invece la ballad “Il Canto del Vento”, penalizzata da una metrica bizzarra e da un testo poco efficace, mentre la pomposa “Silent Dream” (brano davvero originale per lo stile del gruppo) e la solenne “Son of Pain” si contendono la palma di miglior pezzo del disco. Sono rimasto notevolmente impressionato da “The Mystic Prophecy of the Demon Knight”, l'immancabile suite posta a conclusione del disco: era dai tempi di “Symphony of Enchanted Lands” che i Rhapsody non scrivevano una suite di questo livello, una piccola gemma che rende “Triumph or Agony” un album di grande spessore.
Ancora una volta, senza lanciarsi in rischiose sperimentazioni, i Rhapsody hanno dimostrato di essere i migliori nel loro campo. E per molti questo potrà essere un limite, ma per la maggior parte dei fan della band “Triumph or Agony” è un acquisto irrinunciabile.
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