Che il rientro in formazione del figliol prodigo
Anders Strokirk nel precedente lavoro “
Mark of the necrogram” sia stato un evento positivo in casa
Necrophobic è un fatto che difficilmente può esser smentito da chi segue da tempo le vicende degli svedesi.
Che l’onda lunga di questi benefici si potesse sentire nel successore dell’acclamato album del 2018 invece era meno prevedibile, anche se le speranze in cuor mio erano alte. Fortunatamente – per loro e per noi ascoltatori/acquirenti – bastano poche note di
“Dawn of the damned” ed ogni eventuale dubbio si scioglie come neve al sole.
Introdotti all’ascolto dalla splendida copertina di
Kristian ‘Necrolord’ Wahlin – ricordate la chiesa blasfema che troneggiava nella cover del precedente album? Bene. L’’Artista svedese ne ha abilmente tratteggiato l’interno –
“Dawn of the damned” pone l’accento sull’anima sinistra del combo svedese.
Il disco infatti è permeato dalle melodie sulfuree tessute dall’eccellente lavoro della coppia di asce
Sebastian Ramstedt/Johan Bergebäck capaci, come da marchio di fabbrica della Premiata Ditta
Necrophobic, di inserire le caratteristiche pulite linee melodiche/catchy (parola questa da prendere cum grano salis si intende) senza per questo scendere nell’utilizzo di soluzioni accomodanti.
La tripletta iniziale costituita da
“Darkness be my guide”, “Mirror black”, “Tartarian winds” costituisce a mio avviso la parte migliore dell’album - quella che meglio rimane in testa dopo diversi ascolti per intenderci - in esse la band è felicemente aggressiva, incastonando melodie incalzanti con l’equilibrio e la consapevolezza che nasce da anni di esperienza.
Con questo però non vorrei far passare il messaggio che il resto dell’album non sia all’altezza della sua parte iniziale, perché direi una bugia bella grossa:
“The infernal depths of eternity” è pesante come un tombino su un piede, la titletrack è la tipica rasoiata della vecchia scuola, la lunga e dinamica “
The return of a lost long soul” lascia intravedere sviluppi interessanti nel sound dei Nostri con l’utilizzo di aperture più “progressive” (anche questa parola va presa con intelligenza mi raccomando!) mentre la conclusiva
“Devil’s spawn attack” che vede la presenza dietro al microfono di
Schmier dei
Destruction è una scudisciata sulla schiena dai colori thrash.
Ma la vera eredità di
“Dawn of the damned” è il lasciarci una band che, giunta quasi ai trenta anni di attività, non guarda nostalgicamente al passato ma ha ancora i numeri e le qualità per imporsi come punto di riferimento del genere.
Scusate se è poco.
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