Come forse già sapete (anzi diciamo che lo “dovreste” sapere …) considero
Mark Mangold un autentico maestro dei tasti d’avorio, nonché uno dei principali contributori alla causa del
pomp-rock statunitense.
Touch, Drive She Said, The Sign e collaborazioni importanti (
Michael Bolton e
Cher, tra le altre) hanno consolidato le qualità di un artista in grado di rivaleggiare con
Sir. Gregg Giuffia nel cuore dei cultori del genere.
Appassionati che sono assolutamente consapevoli del fatto che in realtà tutto è iniziato sotto un’altra nobile sigla, quella degli
American Tears, capaci, soprattutto con il favoloso terzo album “
Powerhouse”, di stilare i presupposti per quello che sarebbe venuto dopo, rappresentando proprio una sorta di archetipo “sperimentale” degli stessi Touch.
Ora, rispolverare un
monicker così di “culto” non è mai un’impresa esente da rischi, ma evidentemente
Mangold non è particolarmente preoccupato di tali possibili conseguenze, dal momento che “
Hard core” del 2018, “
White flags” del 2019 e oggi questo “
Free angel express” tentano di riportare in auge il nome di un gruppo per molti anni conservato solo negli scrigni delle gemme dimenticate.
Ora, il problema in questi casi è che il “passato” inevitabilmente pesa come un macigno, e analogamente a quanto accaduto con i Drive, She Said di “
Pedal to the metal”, non è facile rimuovere dalla memoria suggestioni pregresse tanto intense e indelebili.
In definitiva potremo affermare che il nuovo lavoro degli
American Tears (al momento, in pratica, una sorta di progetto “solista” del
keyboard-wizard americano, sebbene supportato da nomi prestigiosi della “scena” … da
Alex Landenburg a
Barry Sparks, fino al fedele sodale
Doug Howard) è un lavoro tutto sommato piacevole e decoroso, in cui però la sensazione è che l’ispirazione non sia esattamente ai massimi livelli, solcato com’è di “trucchi del mestiere” e di diluizioni espressive.
In un misto di Cannata, World Trade, ELP (senza dimenticare i 3 di “
To the power of three”), Vangelis e
Jan Hammer il programma si snoda per ben ottantatré minuti (troppi, direi, anche senza la
jazzata bonus finale) di sonorità cinematografiche e barocche, in cui non sempre emerge nitida la migliore attitudine melodica del nostro, artefice, tra l’altro di una prestazione vocale soddisfacente e tuttavia di certo non memorabile.
Ciò detto, “
Sledgehammered” è un’eccellente
opener, frizzante e istantanea, “
Glass” è avvolgente e seducente e piacciono anche la notturna “
Everything you take”, la pulsante “
Shadows aching karma” e l’evocativa "
Woke” (la mia preferita, per la cronaca …), mentre altrove le soluzioni armoniche, seppur discretamente suggestive e comunque mai moleste, appaiono un po’ troppo “semplicistiche” e ripetitive per un musicista e compositore del calibro di
Mark Mangold.
Citando, infine, "
Blue rondo”, dissertazione sulle note di “
Blue rondo à la Turk” del Dave Brubeck Quartet (qualcuno ricorderà le analoghe variazioni firmate The Nice e Le Orme), accogliamo gli
American Tears nel novero dei “veterani” ancora abbastanza integri e credibili e ciononostante non attrezzati per ambire a posizione di vertice … riconoscenza e stima rimangono inalterate ma, a anche costo di apparire inguaribilmente “nostalgico”, credo che dagli autori di “
Can't keep from cryin'” sia lecito attendersi qualcosa di più.