Nelle vicende del vivere quotidiano è piuttosto raro che la classica “pausa di riflessione” sia una soluzione efficace per recuperare rapporti logori e incrinati, mentre non è inconsueto che mettere temporaneamente in
stand-by un progetto musicale diventi un modo proficuo per recuperare l’intesa e l’ispirazione, dimenticando incomprensioni e
routine.
Ed è proprio quello che è successo ai
Wig Wam,
monicker accantonato dopo l’uscita di “
Wall street”, consentendo ai membri della
band altre frequentazioni artistiche (il cantante
Åge Sten Nilsen con gli Ammunition, mentre
Bernt Jansen e
Trond Holter hanno collaborato con
Jorn e unito le forze negli Holter), verosimilmente, come vedremo, propedeutiche a questo eccellente ritorno.
“
Never say die” è un albo che prosegue nel processo di “indurimento” sonoro e di pragmatismo espressivo già rilevabile nei precedenti più recenti della parabola artistica dei norvegesi, e lo fa con una rinnovata
verve ed energia, implementando quell’equilibrio che era venuto un po’ a mancare nel disco del 2012.
Meno lustrini e via libera a una formula espositiva maggiormente
heavy e coriacea, insomma, in cui la “lezione” di Rainbow, Whitesnake, Eclipse e di (certi) Masterplan diventa spesso predominante su quella garantita da Sweet, Motley Crue, Kiss e Poison.
Superata l’eventuale delusione dei
glam-maniacs, non rimane che accogliere “
Never say die” come una vera e propria forma di “riscatto” inscenata da una formazione che dimostra di saper trattare la “nuova” materia con disinvoltura e tensione emotiva, chiarendo fin da subito i suoi bellicosi propositi.
La
title-track dell’opera, collocata subito dopo l’epica
intro “
The second crusade”, è una dichiarazione d’intenti piuttosto eloquente, recapitata all’astante attraverso una vigorosa linea melodica e un coro da contagio istantaneo.
Con “
Hypnotized” il clima acquisisce un pizzico di superiore “ruffianeria” (soprattutto nel
refrain), pur mantenendo intatta la forza d’urto, e se la successiva “
Shadows of eternity” striscia nei sensi subdola e conturbante, “
Kilimanjaro” aggiunge alle suggestioni dell’incisione un accattivante tocco
rootsy, finendo per evocare nella memoria una sorta di cooperazione tra J
on Bon Jovi, Aerosmith e Ammunition.
Il
groove possente e lascivo di “
Where does it hurt” mescola Ratt,
Alice Cooper e
Jorn, e l’arrivo della ballata “
My kaleidoscope ark”, sebbene quest’ultima non sia esattamente un “capolavoro epocale”, rafforza l’impressione di un programma ben calibrato, privo di autentiche controindicazioni.
Le folgori
street-metal scagliate da “
Dirty little secret” e da “
Call of the wild” (con un ritornello che mi ha ricordato qualcosa di “
Beat it” di
Michael Jackson … avrò bisogno di riposo?), lasciano il posto all’elegiaco strumentale “
Northbound“, seguito da una canicolare e “serpentesca” “
Hard love” e da “
Silver lining”, un altro suggestivo momento passionale, in cui (ri)affiora il retaggio
seventies e
glitterato dei
Wig Wam.
Allontanarsi per poi ritrovarsi, alimentati da nuovi stimoli … “
Never say die” dimostra che è una cosa possibile, almeno nel variopinto carrozzone del
Rock n’ Roll.